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Il flop della doc Piemonte

Il 5 ottobre 2010, quando la Gazzetta ufficiale pubblicava il decreto di modificazione della doc “Piemonte” col nuovo disciplinare di produzione, molti ritennero che il vigneto piemontese avesse a disposizione una regolamentazione efficace, proprio come ci si aspettava. Erano aumentati i vini legati al singolo vitigno: ai Piemonte Barbera, Bonarda, Brachetto, Chardonnay, Cortese, Grignolino e Moscato si erano aggiunti nel 2010 l’Albarossa e nell’occasione Dolcetto, Freisa, Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot nero, Sauvignon e Syrah. Addirittura, erano stati pensati vini con il “doppio vitigno”, grazie ai possibili accostamenti tra Cortese, Chardonnay e Sauvignon nei bianchi e tra Barbera, Dolcetto, Freisa, Bonarda, Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah e Pinot nero nei rossi.

Ma le tipologie più attese erano ancora altre, quelle riferite al colore (Piemonte bianco, rosato e rosso, per capirci). Tuttavia, esaminando i dati produttivi del 2010, ci siamo trovati di fronte a risultati inattesi. Ci aspettavamo una forte crescita di questa doc così onnicomprensiva, ma in realtà l’incremento di produzione è stato piuttosto limitato. Il confronto tra i due anni evidenzia come si sia passati dai 366.695 quintali di uve del 2009 ai 435.885 del 2010, con un incremento di 69.190 quintali, pari al 18,87%.

È vero, la pubblicazione del nuovo disciplinare è avvenuta in vendemmia, ma ciò non spiega perché una denominazione così attesa e a lungo seguita nel suo cammino di approvazione abbia esercitato un così scarso appeal sui produttori.

Proprio le tipologie più auspicate (Piemonte bianco, rosato e rosso) hanno raccolto i minori consensi: a “Piemonte bianco” sono stati rivendicati 125,57 quintali di uve; a “Piemonte rosso” un po’ di più (697,44 quintali) e nulla al “Piemonte rosato”. Abbiamo sentito qualche produttore e le rappresentanze istituzionali e abbiamo capito la ragione di questo inaspettato flop: nel passaggio tra la pubblica audizione e la definitiva approvazione in Comitato nazionale sono state modificate le composizioni dei vitigni ritenuti idonei a produrre queste tre tipologie. Nel settore c’è disappunto. In pubblica audizione i produttori avevano approvato un’impostazione, mentre nel testo licenziato dal Comitato nazionale e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale si sono trovati di fronte soluzioni molto diverse.

Confrontandole, l’inghippo risulta chiaro. In audizione erano state adottate le seguenti soluzioni: per il Piemonte bianco si consentiva l’uso di Cortese e/o Arneis e/o Chardonnay e/o Erbaluce, da soli o congiuntamente per almeno il 60% del totale, e si concedeva la possibilità di aggiungere per la parte restante anche altri vitigni a bacca di colore analogo idonei per il Piemonte. Nel caso di Piemonte rosso e rosato, logicamente si poteva scegliere tra Barbera e/o Dolcetto e/o Nebbiolo e/o Freisa e/o Croatina, da soli o insieme per almeno il 60%, e per la rimanente quota la soluzione era la medesima.

Una impostazione molto libera, ma fortemente legata alla distribuzione dei vitigni sul territorio regionale, con le logiche differenze tra zona e zona. Il Comitato nazionale, invece, ha imposto una base ampelografica più rigida, legiferando con una sorta di “bilancino” che non si addice alla distribuzione viticola piemontese: nel caso del “Piemonte bianco” ha reso obbligatoria la composizione con Chardonnay (30-50%), Cortese e/o Favorita e/o Erbaluce (20-70%) e un altro 15% di vitigni a bacca di colore analogo idonei per il Piemonte e ha appesantito ulteriormente la situazione sancendo l’obbligo del cosiddetto “ambito aziendale”.

Nei casi del “Piemonte rosso” e “Piemonte rosato” è rimasto l’obbligo dell’ambito aziendale e la composizione varietale è stata fissata in Barbera (30-50%), Nebbiolo e/o Dolcetto e/o Freisa (20-70%) e un altro 15% di vitigni a bacca di colore analogo idonei per il Piemonte.

Un vero arcano. Logicamente, le accuse si incrociano. Di mira sono presi i componenti piemontesi del Comitato nazionale e, in particolare, l’Assessore regionale, che si dice sia il responsabile del via libera alla nuova soluzione. A questo punto, una soluzione va trovata, in fretta e senza tanti clamori. Altrimenti c’è il pericolo che la materia debba essere portata in sede di Unione europea, con le complicazioni del caso e i tempi che si potrebbero allungare. A danno, naturalmente, dei produttori e dell’intera filiera.

Giancarlo Montaldo

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