Quando Kabul ti prende l’anima

Sono albesi, ma hanno scelto una vita fuori confine.

Enrica Montersino e Alessia Riccardi, classi ’78 e ’79, dopo la laurea hanno scelto il Sud del mondo.

 

Enrica Montersino Alessia Riccardi

Enrica Montersino e Alessia Riccardi

Enrica ha una specializzazione in scienze agrarie tropicali e subtropicali all’Università di Firenze, ha viaggiato, portando la sua esperienza di agronomo in Perù, Kosovo e ora in Afghanistan, dove vive dal novembre dello scorso anno, lavorando per l’organizzazione non governativa francese Madera.

Una laurea in scienze diplomatiche e internazionali invece per Alessia che, tra le altre cose, ha collaborato con la più famosa ong italiana, Emergency di Gino Strada, restando due anni a Kabul, dal 2007 al 2009, ma lavorando molto anche in Africa (di recente in Sierra Leone).

Nel frattempo Alessia ha anche trovato il tempo per rientrare un anno in Italia e specializzarsi in un master. Enrica e Alessia hanno preso parte a un incontro organizzato dalla cooperativa La torre per portare ad Alba «uno sguardo sull’Afghanistan». Le abbiamo intervistate.

Bambino a KabulIn che cosa consiste il vostro lavoro?

Enrica: «Sono la coordinatrice di un progetto rurale della Commissione europea dedicato allo sviluppo del settore vivaistico- frutticolo in Afghanistan. Il nostro compito è di aiutare undici organizzazioni di vivaisti sparsi in tutte le regioni, facendoli diventare piccoli imprenditori».

Alessia: «Mi occupo di gestione e amministrazione. Sono quello che viene definito un “amministratore Paese”, con mansioni di organizzazione del budget, piani spese e gestione del personale. Per Emergency però il lavoro va anche oltre. In questo tipo di realtà, specialmente quando capitano le emergenze, “chi ha le mani libere” si dà da fare e così ho imparato a organizzare una sala di primo intervento, preparare le flebo, supervisionare una banca del sangue».

Come siete viste in quanto operatrici di organizzazioni non governative e straniere in luoghi dalle culture così differenti?

Enrica: «Le aspettative della popolazione nell’ambito dei progetti di sviluppo sono molto elevate. La realtà per cui lavoro ha una lunga tradizione in Afghanistan, è molto amata, ha un legame speciale. I contadini sono capaci, ma non vivono solo di vivaismo; hanno tutti un altro lavoro per mantenersi. Il mio compito è di insegnare loro il modello europeo della piccola-media impresa».

Alessia: «Inutile dire che Emergency è un’istituzione. A Kabul l’ospedale è in piedi dal ’97, l’associazione è apolitica, apartitica, con criteri precisi e specifici per le vittime di guerra. Una realtà ormai radicata sul territorio, che ha saputo mettere insieme le competenze mediche dei locali con gli espatriati. Fin quando ero là, si trattava di 1.100 dipendenti, per la maggior parte uomini».

E voi siete donne.

Enrica: «Lo status della donna espatriata è molto difficile, ma diverso dal concetto che i popoli hanno del femminile nella loro cultura. Mi spiego: fanno fatica ad accettarti, ma vedono la differenza. E se tu ti dimostri sicura e forte, arrivano a rispettarti».

Alessia: «Sempre però mantenendo rapporti indiretti e distaccati».

Enrica: «Che poi in casa sono le donne che comandano. Sono culture simili alla nostra di cinquant’anni fa. L’uomo fuori fa lo “splendido”, ma dentro le mura domestiche è la donna che porta i pantaloni».

 

Kabul: vita al mercato

 

Parliamo del vostro abbigliamento? Che cosa vi consigliano di indossare?

Alessia: «In ospedale, in ufficio e in casa potevamo mettere la t-shirt. Ma quando uscivo fuori, maglie girocollo, sempre braccia egambe, e il capo, coperti».

Enrica: «La mia organizzazione non vuole che indossiamo abiti corti, al massimo maniche a tre quarti all’interno della struttura. Nelle province c’è l’obbligo di vestirci all’afghana, quindi pantaloni, maglia fino alle ginocchia e velo che copre tutto il busto. Dobbiamo mimetizzarci con la popolazione ».

Si va fuori ogni tanto?

Enrica: «Vado nei bar e nei ristoranti, talvolta nel famoso supermercato di Kabul, un luogo di incontro anche per gli espatriati».

Alessia: «Avevo poche possibilità di uscire, perché eravamo spesso disponibili per le emergenze. Quindi, ci ricavavamo attività alternative in casa».

Avete mai avuto paura?

Alessia: «Il 2007 è stato un anno caldo. Ogni mattina ci svegliavamo con il botto di una bomba. È difficile non pensarci, visto che ovunque ci sono militari, posti di blocco, sicurezze private. La gente va in giro mediamente armata, i bambini giocano con pistole e fucili. Sono cresciuti con la guerra, sono abituati alla guerra. Gli è stato insegnato a difendersi».

Enrica: «All’inizio anche il temporale ti confonde. Poi impari a distinguere il botto di una bomba dallo scoppio dei copertoni o altri suoni. Qualche volta, di sera, si sentono i combattimenti. Spesso però si tratta delle forze Nato che fanno saltare le bombe che sequestrano. Non ho troppa paura, si impara a conviverci».

Nuovi progetti?

Alessia: «Sto ancora decidendo se passare l’estate a casa o ripartire subito. Ho diverse proposte, ma visto il mio “mal d’Africa” credo accetterò il posto di coordinatore di 20 Paesi a Nairobi».

Enrica: «Riparto questa settimana. Sono già stata lontana anche troppo. Devo tornare a Kabul a controllare i lavori».

Nessuna idea di rientrare ad Alba o in Italia? (Capisco la risposta già dal loro sguardo)

Enrica: «Ho seri dubbi su ciò che potrei venire a fare qui».

Alessia: «Magari proprio non nel cortile di casa. Diciamo che potrei cominciare ad avvicinarmi al continente».

Cristina Borgogno

Foto ANSA

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