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Una cosca sotto le torri

Che la ’ndrangheta abbia messo da tempo radici nel Nord del Paese non è un mistero.

Lo dimostrano in concreto le indagini a tappeto e gli arresti eccellenti in Lombardia, fra Milano e Pavia, così come le misure cautelari nei confronti del presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, sospettato di favorire alcuni esponenti della malavita, senza dimenticare lo scioglimento del Comune di Bordighera per infiltrazioni mafiose. Ma forse un certo snobismo sabaudo ci aveva indotto a ritenere che il Piemonte fosse rimasto immune dalle infiltrazioni della malavita organizzata, nonostante già nel 1983 – come Gazzetta ricorda quasi ogni anno – la criminalità calabrese abbia ucciso il magistrato di origini ceresolesi Bruno Caccia, tra l’altro grande amico dell’attuale procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli.

La scorsa settimana i Carabinieri hanno eseguito 19 ordinanze di custodia cautelare in carcere, smantellando una cosca della ’ndrangheta che operava fra Novi Ligure, Alba, Asti e Sommariva del Bosco. L’operazione ha consentito di recuperare materiale utile per compilare una mappa della rete nel basso Piemonte dell’organizzazione criminale, che ha progetti di controllo del territorio anche fra le colline albesi.

L’arresto più importante è quello di Bruno Pronestì, calabrese residente in provincia di Alessandria, a capo del sodalizio che aveva messo le mani sugli affari del basso Piemonte. Nella rete degli inquirenti è finito anche un consigliere comunale di Alessandria, Giuseppe Caridi, eletto nel 2007 nella lista del Pdl, presidente della Commissione politiche e territorio.

La novità è che non si tratta di un politico amico dei malavitosi, ma di un vero e proprio affiliato. Proprio ad Alessandria, nel corso di una perquisizione, i Carabinieri hanno trovato un documento, vergato a penna in stampatello, che descrive nei minimi dettagli una parte del complesso rito di ammissione che Caridi ha dovuto completare per poter assumere la qualifica di picciotto. L’inclusione di Caridi segna – secondo gli inquirenti – il tentativo della ’ndrangheta di entrare direttamente in politica.

 

Il procuratore Alberto Perduca, il procuratore Giancarlo Caselli, il comandante del Ros dei Carabinieri Mario Parente

Il procuratore Alberto Perduca, il procuratore Giancarlo Caselli, il comandante del Ros dei Carabinieri Mario Parente.

 

Fra i nomi, però, vi è anche qualche conoscenza albese: Francesco Librizzi, detto Gino, venditore ambulante molto conosciuto in città, e Rocco Zangrà, autotrasportatore, che era già detenuto presso il carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Secondo quanto emerso dall’inchiesta dei Carabinieri, coordinata dalle Procure di Reggio Calabria, Torino e Genova, vi sono tracce dell’esistenza di una cosca della ’ndrangheta nel basso Piemonte da circa un anno.

In effetti, le indagini sembrerebbero partite da un’annotazione dei Carabinieri che, durante un’operazione del luglio 2010 (bloccati trecento ’ndranghetisti tra Lombardia e Calabria), portava all’arresto dell’albese Rocco Zangrà, il quale si era recato in visita a Domenico Oppedisano, capo di tutta la mafia calabrese. L’incontro, avvenuto in un agrumeto di Rosarno il 30 agosto 2009 – e intercettato da una serie di cimici piazzate in un casolare abbandonato – era stato richiesto proprio da Zangrà, per chiedere il permesso di costituire una cosca ad Alba. Zangrà, tuttavia, temeva di scavalcare il superiore Pronestì e cercava un appoggio dai vertici dell’organizzazione.

D’altro canto, come emerge da una delle intercettazioni, una ’ndrina fra l’albese e l’astigiano avrebbe rappresentato un fatto nuovo, dal momento che l’organizzazione di Pronestì era attiva soprattutto fra il Piemonte e la Liguria, in provincia di Alessandria.

Alla fine sembrerebbe che Oppedisano avesse consentito alla creazione di una “società minore”, con a capo Zangrà ma formalmente sottoposta al gruppo di Pronestì del basso Piemonte. E l’organizzazione aveva già cominciato a muoversi. Nelle carte dell’indagine della Procura di Torino non si trova traccia di episodi specifici di droga, usura, infiltrazioni negli appalti, controllo di voti. Ma due documenti raccolti dagli inquirenti sono stati definiti «molto interessanti » dal procuratore capo Gian Carlo Caselli: sono fogli intitolati «fiori da prendere » e «fiori mandati a casa», e sono composti da elenchi di nomi ed esercizi commerciali corredati da cifre.

Alessandro Cassinelli

Foto ANSA / DI MARCO

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