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Cooperative, risorsa da tagliare

«Mi sembra che il mondo virtuoso delle cooperative, un mondo da apprezzare e che in tempi di crisi ha dato segni straordinari di lavoro e solidarietà, meriti un trattamento migliore di quello che gli è stato riservato nella recente manovra economica». Lo ha affermato il segretario di Stato vaticano cardinale Tarcisio Bertone, durante l’incontro delle Acli a Castel Gandolfo, venerdì scorso, il 2 settembre.

Lo stesso giorno a Cuneo Confcooperative teneva un convegno dal titolo: Cooperazione tra presente e futuro: quali prospettive per l’economia cuneese e le cooperative.È probabile che i responsabili piemontesi, al momento dell’organizzazione dell’incontro, non avessero messo in cantiere di discutere anche della minaccia che proprio in questi giorni pare incombere sul mondo cooperativo, in base alle ipotesi della manovra economica.

Ma di fatto, vista la contingenza e al di là della pur interessante tematica generale, tutti gli interventi hanno fatto perno sull’urgenza di difendere il ruolo delle imprese cooperative dai tagli ipotizzati dall’Esecutivo di Berlusconi, un intento a cui le parole del cardinal Bertone hanno fatto da supporto, riprese da più relatori.

La riduzione dei vantaggi fiscali per le società cooperative non avrebbe un impatto significativo per la manovra da 45 miliardi di euro. Le stime delle cooperative indicano, infatti,un gettito per lo Stato di poche decine di milioni di euro, 60 nell’ipotesi più drastica, ritenuta improbabile, perché l’intervento dovrebbe limitarsi a una riduzione – non all’annullamento – delle esenzioni e agevolazioni. Ma che cosa intende fare il Governo? L’attuale regime fiscale delle società cooperative prevede che non sia soggetta all’Ires (l’Imposta sul reddito delle società) una quota di utile netto annuale che va dal 70 al 30 per cento, a seconda che le cooperative siano a mutualità prevalente (la maggioranza dell’attività rivolta ai soci) o meno.

Va detto che le risorse devono essere accantonate a fondo di riserva indivisibile e indisponibile, per gli investimenti. In Italia le cooperative sono circa 83.000: di queste, il 72 per cento sono microimprese e il 75 per centoha meno di 10 mila euro di capitale. Per questo il presidente nazionale di Confcooperative, Luigi Marino, ha commentato: «Non c’è dubbio che nella manovraci sia la volontà di colpire ilmondodella cooperazione, di cui viene messo anche a rischio il futuro.

Se il provvedimento dovesse passare, sarebbe paradossale: si tratta di poche decine di milioni. Nulla per lo Stato, molto per il nostro movimento, che vedrebbe bloccare la capitalizzazione». D’accordo i cuneesi a convegno nell’area della Grande fiera d’estate: le relazioni sono state affidate al presidente di Confcooperative Cuneo, Domenico Paschetta, al professor Giuseppe Tardivo (vedi intervista) e al responsabile del centro studi della fondazione Cassa di risparmio di Cuneo Franco Chittolina.

Maria Grazie Olivero

CONFCOOPERATIVE. NON C’E’ LUCE IN FONDO AL TUNNEL

 “Anche se non si vede la luce in fondo al tunnel della crisi, la cooperazione siè attrezzata, accentuando la sua funzione anticiclica,e – pur registrando difficoltà di accesso al credito, ritardi nei pagamenti e minori richieste– si dimostra in controtendenza.Èl’unico settore economico che ha creato nuova occupazione, incrementando del 5,5 per cento gli addetti nel 2010(da 507mila a535 mila). Di più: il 59 per cento dei lavoratori è donna, il 22 per cento straniero; nelle grandi cooperative il90 per cento ha un contratto a tempoindeterminato (il 60 nelle microimprese); in cooperativa cresce, inoltre, ilmanagement femminile (attestato al 6,9 per cento)”

Domenico Paschetta, presidente di Confcooperative Cuneo

IL COMMENTO – SE LE STANGATE STRITOLANO PURE L’EUROPA

Lo sconcerto, prima ancora che il dissenso e la protesta, prevale dinanzi alla manovra finanziaria in corso. Succeduta a quella di luglio, che avrebbe dovuto essere risolutiva, la più pesante manovra di ferragosto doveva rispondere alle esigenze avanzate dalla Banca centrale europea (Bce), impegnata in uno straordinario salvataggio dei titoli di Stato italiani, e innescare un processo di crescita e di riduzione del debito pubblico.

A Bruxelles, come in Italia, ci si interroga su quale sarà la risposta italiana e quale possa essere la credibilità del Governo, che continua a cambiare di ora in ora pezzi importanti della manovra, senza dire come raggiungere in tempi brevi i livelli convenuti della riduzione del debito e senza prevedere stimoli alla crescita, rinviando il tutto all’improbabile recupero dell’evasione fiscale e ai tempi incerti delle riforme costituzionali, come nel caso dei costi della politica (soppressione delle province e dimezzamento dei parlamentari). Se poi a questo generale sconcerto si aggiungono le critiche di Bankitalia e della Corte dei conti, l’Italia conferma tutta la sua fragilità, resa evidente da una dilettantistica manovra dal chiaro sapore elettorale e priva di riforme strutturali.

Non per indulgere al “mal comune, mezzo gaudio”, ma può essere utile allargare lo sguardo oltre i confini della provincia-Italia, capire che cosa sta capitando negli altri Paesi dell’Ue e, magari, provare a intravedere quale impatto potrebbero avere le altre “stangate” sul futuro dell’economia europea. Il quadro è complicato e molto confuso: meglio partire da qualche dato essenziale sullo stato di salute di alcuni Paesi Ue e di lì risalire alle manovre di contrasto alla crisi. Epicentro del terremoto in corso le disastrate finanze pubbliche dei Paesi europei, tanto che si tratti dei deficit annuali sul Prodotto interno lordo (Pil) o dei debiti sovrani contratti dagli Stati lungo gli anni. Su entrambi i versanti le situazioni sono molto diverse: dai deficit esplosi con la crisi in Irlanda, Gran Bretagna e Spagna (rispettivamente 32,4%,10,3%, e 9,2%), quelli lasciati correre in Francia al 7% , fino a quello relativamente sotto controllo dell’Italia, bloccato al 4,5% e a quello tedesco vicino alla soglia del Patto di stabilità con il 3,3%.

Anche più ampio lo spettro del debito pubblico, che si è andato ingigantendo negli anni: da quello ancora molto contenuto di Olanda e Spagna attorno al 60% (in linea con il Patto di stabilità europeo) a quello cresciuto poco sopra l’80% in Germania e in Francia e vicino al 100% di Belgio, Irlanda e Portogallo fino a quello «sfuggito di mano» dell’Italia (120%) e della Grecia, maglia nera con un debito del 143%. A fronte di queste zavorre del debito sul Pil, vanno rilevate le forti differenze dei tassi di crescita del Pil: dal 3,4% della Germania, al 2,2% della Francia, all’1% dell’Italia fino alle percentuali negative, che annunciano recessione, del Portogallo (-2,1%) e della Grecia (-2,9%): tutti numeri appena rivisti al ribasso dal Fondo monetario internazionale (Fmi), con l’Italia che scende allo 0,8% nel 2011 e allo 0,7% nel 2012 a fronte di un aumento dell’inflazione al 2,8% superiore alla media europea.

Per rispondere a questi indicatori di crisi, le manovre finanziarie nei Paesi Ue ruotano attorno ad alcuni elementi: aumento della pressione fiscale (in particolare attraverso la riduzione delle agevolazioni fiscali esistenti), congelamenti salariali nel settore pubblico, riduzione della spesa sociale e, in alcuni casi come in Grecia, riforma delle pensioni. Altro elemento di possibili convergenze risiede nell’inserimento di una “regola d’oro” nelle Costituzioni nazionali con l’obiettivo di obbligare gli Stati – come è già il caso della Germania – a chiudere in pareggio i loro bilanci pubblici, non accontentandosi del vincolo posto dal Patto di stabilità Ue a contenere il deficit attorno al 3%. Sembra esitare a procedere su questa strada il Governo francese, più disponibile lo spagnolo, alle sue ultime prove di rigore.

Dinanzi a un paesaggio diversificato come questo non stupisce che l’Ue stenti a trovare una linea condivisa, tanto più in assenza di un’autorità federale responsabile del governo dell’economia e di una politica fiscale comuni. Su quest’ultimo versante si assiste così a misure divergenti, dall’innalzamento delle aliquote Iva all’imposizione fiscale sulle grandi ricchezze: qualcosa a questo proposito ha fatto la Francia con una modesta tassa supplementare del 3% sulle “grandi fortune”, ovunque in Europa arricchitesi in questi anni di crisi. Così si va tutti in ordine sparso, ciascuno preoccupato del proprio elettorato e senza una visione europea di medio-lungo periodo, che si tratti della creazione di titoli pubblici europei, come gli Eurobond, praticabili ma politicamente difficili da far digerire da elettorati preoccupati solo della propria ricchezza di oggi e non dei suoi sviluppi futuri per tutta l’Unione. Senza contare che l’accumularsi delle diverse “stangate di rigore”, prive di stimoli alla crescita, rischia di innescare una spirale recessiva all’origine di un pericoloso contagio tra i Paesi Ue, adesso che rallenta anche la crescita dei Paesi emergenti e che nessuna importante economia sembra proporsi come “traino” per una ripresa.

Franco Chittolina, responsabile del Centro studi e comunicazione della fondazione “Cassa di risparmio di Cuneo”

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