Lodovico Rocca e la tragedia armena

Si approssima il “Giorno della memoria”, e sono moltissime le esperienze storiche e biografiche di popoli, gruppi, persone che in questa ricorrenza trovano, ieri e oggi, un triste motivo di ospitalità. Ci è capitato di ricostruire, almeno in parte, un’interessante vicenda, artistica e umana, che racconta ancora una volta l’oscurità della follia persecutoria e l’ottusità della chiusura all’altro e al diverso. La storia riguarda il compositore torinese Lodovico Rocca (1895-1986, nella foto in basso), cui è intitolato, anche in virtù di legami familiari con l’albese, il Civico istituto musicale della nostra città. Lo spunto d’indagine ci è stato offerto da Renato Vai dell’associazione Padre Girotti, che si è imbattuto in una rara copia del libretto di Monte Ivnor, opera lirica in tre atti composta da Rocca nella seconda metà degli anni Trenta su un testo di Cesare Meano. Meano (1899-1957), scrittore e regista teatrale anch’egli torinese, si era ispirato ai Quaranta giorni del Mussa Dagh, romanzo- fiume di Franz Werfel (1890-1945, nella foto a sinistra), scrittore di grande sensibilità uscito dalla stessa fucina ebreo-praghese di Kafka, Brod, Weiss e presente in Italia nei cataloghi di editori come Adelphi, Guanda e Corbaccio.

Introdotti i nostri personaggi, occorre, per procedere con ordine, che si cominci da Franz Werfel. Mitteleuropeo colto e cosmopolita, in azione sulla scena letteraria viennese, Werfel (per inciso terzo marito di Alma Mahler, che per lui aveva divorziato da Walter Gropius) viaggia per il mondo degli anni Venti e Trenta, assimilando luoghi, persone, esistenze. Nel marzo del 1929 si trova a Damasco, dove – scrive – «la visione pietosa di fanciulli profughi,mutilati e affamati, che lavoravano in una fabbrica di tappeti, diede la spinta decisiva a strappare dalla tomba del passato l’inconcepibile destino del popolo armeno». Quattro anni dopo, nella primavera del 1933, esce I quaranta giorni del Mussa Dagh, una «grandiosa epopea» che in un migliaio di pagine romanza, retrodatandolo e affollandolo di personaggi e sottotrame, un effettivo episodio storico: la resistenza contro l’esercito turco di un gruppo di armeni, nell’estate del 1915. Il biennio 1915-16 è uno dei momenti cruciali, per la concentrazione e la portata dei fatti sanguinosi che annovera, nell’aspra controversia che divide tuttora turchi e armeni: se nella deportazione in massa di centinaia di migliaia di armeni – una marcia forzata che si tradusse nella morte per violenza o per stenti del 40 per cento di loro, come visto ne La masseria delle allodole dei fratelli Taviani, dal romanzo di Antonia Arslan – vi sia stata oppure no, da parte del regime dei Giovani Turchi, premeditazione di genocidio. Due storiografie nazionaliste si fronteggiano, mentre posizioni più critiche e meno pregiudiziali cercano di fareun discorso di contesto (la situazione politica dell’Impero ottomano nello scenario della prima guerra mondiale) e di valutare peso e attendibilità delle fonti perdute e superstiti. Resta incancellabile il tragico massacro di una popolazione innocente: uomini, donne e bambini “rei” di appartenere a un gruppo etnico dove, in un quadro di forte subordinazione sociale, erano sorti movimenti separatisti e rivoluzionari, opportunamente coltivati da interessi politici esterni in chiave anti-ottomana.

Il romanzo di Werfel non fu amato, chiaramente, dai nazionalisti turchi – che ancora oggi sostengono che lo scrittore, in buona fede ed emotivamente attaccabile, si fosse lasciato fuorviare dalla propaganda filoarmena. Il fatto che oltre quattrocento armeni, rifugiatisi sulle alture del Musa Dag (la “Montagna di Mosè”, sovrastante la baia di Antiochia), furono tratti in salvo dopo 53 (non 40) giorni da una nave da guerra francese, è comunquestoricamente registrato. Ma quando il romanzo esce nelle librerie, Franz Werfel deve cominciare a preoccuparsi della propria storia: Hitler sale al potere, I quaranta giorni del Mussa Dagh finisce presto nei roghi dei libri da cancellare, il suo autore proscritto negli elenchi dei non ariani (da cancellare anch’essi). Werfel e famiglia scappano prima in Francia, poi negli Stati Uniti. Intanto in Italia, nella collana della Medusa di Arnoldo Mondadori, esce nel febbraio del 1935 la traduzione dei Quaranta giorni: l’autore è di lingua tedesca (non si precisa che è un ebreo boemo), la storia è presentata come «la realizzazione, faticosa e spesso sanguinosa, del Bene» raccontata con «cristiana umiltà» (citiamo dal risvolto), e il libro evidentemente passa – non solo –maresta,sommandoquattro edizioni in sette anni.

Tra i suoi lettori incontra abbastanza presto un musicista di Torino, Lodovico Rocca, che ha appena conseguito il suo più grande successo di critica e di pubblico con un’opera lirica intitolata Il Dibuk, basata suun dramma yiddish di un ebreo russo, Sholem An-Ski, che dal 1918 aveva affascinato il pubblico di mezzo mondo. La produzione del Dibuk (storia di amore e di possessione, in cui l’ambiente e la cultura popolare ebraica sono presenti,masenza eccessiva adesione filologica o recuperi musicali) aveva debuttato alla Scala il 24 marzo 1934. Per quattro trionfali stagioni era stata portata in scena a Roma, Torino, Genova, Trieste, Varsavia, Cracovia, Zagabria, Chicago, New York e Detroit… fino al 1938, l’anno delle leggi razziali. Rocca, che fino ad allora si era mantenuto in buoni rapporti (cioè di ossequio formale) con il regime (dal 1936 era tra l’altro accademico di Santa Cecilia), si affretta a fare opportune dichiarazioni di elogio, fedeltà, disponibilità; manon riesce a impedire che Il Dibuk (creatura di marca ebrea askenazita) interrompa la sua corsa. Per la grottesca e zelante pratica dell’antisemitismo di Stato, viene sospettato di essere lui stesso ebreo: nel compilareunquestionario propinato ai membri delle istituzioni culturali, aggiunge perciò di suo pugno di appartenere senz’altro a famiglia ariana e cattolica, da entrambi i rami e molte generazioni (troviamoqueste informazioni nel saggio di Luisa Passerini, Storie d’amore e d’Europa, Napoli, 2008).

Le cose si aggiustano, se Rocca, due anni dopo, ottiene di diventare direttore del conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, perdurando in carica, con riconosciuta autorevolezza, umanità e dedizione fino al 1966 (escluso l’interregno della Repubblica sociale, cui s’era rifiutato di aderire). Tuttavia, la sua nuova opera, Monte Ivnor, composta dal 1936 e al debutto al Teatro reale dell’Opera di Roma il 23 dicembre 1939, non riuscirà ad avere (complice anche la guerra) la stessa circolazione: a parte una sequela di 26 serate nella ormai nazificata Budapest, abbiamo notizia di una sola ripresa al Carlo Felice di Genova nel marzo 1942. Apparentemente null’altro, fino al dopoguerra e a una riedizione del 1957 di cui, per fortuna, esiste la registrazione (Orchestra e coro della Rai di Milano, direttore Armando La Rosa Parodi, Great opera performances, cd 66373).

Tra il 1939 e il 1942, nelle colonne dei programmi radiofonici che annunciano la trasmissione dal vivo di Monte Ivnor, a Franz Werfel non si fa cenno: l’autore del soggetto sembra essere in toto il librettista Meano; e del massacro di un popolo non si parla in termini espliciti: gli armeni sono «la popolazione di un piccolo paese alpestre che corre il rischio di essere posta al bando da un nemico invasore». In quegli stessi anni, altri «nemici», altre «minoranze » e «diversità» erano quotidianamente, premeditatamente «poste al bando», se vogliamo adottare questo rigido eufemismo. Invece, pur nelle diverse sorti e posizioni, lo scrittore Werfel (un perseguitato che dà voce ad altri perseguitati) e il compositore Rocca (istintivamente guidato, pensiamo, da un suo sincero dybbuk) si dimostravano entrambi vicini, nelle loro opere, alla sofferenza e al dolore.

Edoardo Borra

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