E ora mi cerco un lavoro

Al Corso di formazione sociale si parla d'economia con Stefano Zamagni

Quello della disoccupazione locale è un dramma in crescita. Negli ultimi mesi il contesto albese sembra – perlomeno nei numeri – aver perso la combattività che lo contraddistingueva. Ma l’apparenza può nascondere inattese contropartite. Ne abbiamo parlato con uno dei massimi esperti piemontesi di mercato del lavoro. Luciano Abburrà è statistico dell’Ires, l’Istituto di ricerca della Regione.

Apparentemente, il contesto albese sembra cavarsela male negli ultimi tempi. Che cosa ne pensa?

«Prima di tutto c’è da considerare come Alba e più in generale la provincia di Cuneo, a differenza del resto del Piemonte, nel 2010 e nel 2011 abbiano conosciuto dinamiche di disoccupazione inferiori (di almeno due terzi) rispetto agli andamenti del resto della regione. Questo grazie alle risorse dell’area: differenziazione del tessuto imprenditoriale, tenuta delle grandi aziende (si pensi al settore alimentare) e una lodevole cultura del lavoro, dell’ostinazione e dell’impegno. Ma l’interpretazione di questi dati potrebbe non essere così lineare».

Che cosa intende?

«Che dietro al basso livello di disoccupati (ovvero persone non impiegate, ma che il lavoro lo stanno cercando) del 2010 potrebbe essersi nascosto un messaggio implicito: nel contesto albese e cuneese erano molto elevati i tassi di “inattività”, ovvero di persone senza lavoro e che non erano intenzionati a trovare alcuna collocazione. Quindi che non erano iscritte alle liste di disoccupazione del Centro per l’impiego».

Per quale motivo scegliere l’“inattività”?

«I motivi possono essere molteplici. Dalla ripresa del percorso di scolarizzazione alla paura, allo sconforto sperimentato nel vedere i propri tentativi di trovare un posto di lavoro fallire ricorsivamente. Questo sconforto esita in un ritiro passivo, in un’attesa di tempi migliori. Soprattutto la parte femminile della popolazione sembra interessata al fenomeno».

Oggi, invece, a partire dai dati forniti dal Centro per l’impiego, qualcosa sembra muoversi.

«I dati mostrano una disoccupazione in drastico incremento. Questo è dovuto a una minore disponibilità all’assunzione da parte delle aziende. Ma può anche voler dire che il numero degli “inattivi” è diminuito. Chi prima attendeva, ora reagisce. La condizione di partenza è critica, perché anche ad Alba comincia a sentirsi la crisi. Ma è l’atteggiamento psicologico nascosto nei dati che potrebbe rivelarsi cruciale: la voglia di iscriversi alle liste del Centro per l’impiego. Dunque di ripartire, di ricostruire. È un atteggiamento positivo, che potrebbe portare a miglioramenti».

Quindi, che cosa si può prevedere per l’area nel prossimo futuro?

«Difficile fare previsioni. Nei prossimi mesi le cose peggioreranno o al massimo si stabilizzeranno. Ma a partire dal 2014, nessuno può predire che cosa accadrà».

m.v.

Tremila disoccupati in più al Centro per l’impiego Alba-Bra

Ci sono movimenti umani ed emotivi sotto la desolante neutralità delle statistiche (vedi l’intervista qui sotto). Ma dai numeri bisogna partire per fotografare lo stato di salute della comunità.

Ad Alba una strana crisi sembra interessare il mercato del lavoro. I disoccupati iscritti nel 2012 al Centro per l’impiego (Cpi) di Alba-Bra risultano in incremento. Se a fine 2011 erano 6.933, nel primo semestre di quest’anno hanno raggiunto quota 9.914, circa tremila in più. Differenziando per fasce d’età, il paragone tra periodi è drammatico: nel 2011 i giovani disoccupati di età compresa tra i 15 e i 25 anni erano 952, nel 2012 crescevano a 1.591. Nello stesso periodo, gli adulti tra i 26 e i 39 anni sono passati da 2.275 a 3.427, mentre quelli tra i 40 e i 49 anni da 1.551 a 2.231. E pure gli over 50 hanno ingrossato le file dei senza lavoro, slittando da 2.155 a 2.665.

Ma i numeri non sono lineari, così come la loro interpretazione. Osservando i dati del 2010 rispetto al 2011 si rileva ad esempio come i disoccupati nella fascia giovanile 15-25 anni abbiano subìto un decremento, passando da 1.300 a 525. Perché questo miglioramento dal 2010 al 2011, seguito poi da un “inciampo” tra il 2011 e il 2012? In parte, secondo gli esperti, il dato negativo giovanile è spiegabile con la scelta – effettuata da molti in un momento di crisi – di proseguire o riprendere il percorso di scolarizzazione e quindi di posticipare l’inserimento lavorativo.

m.v.

Laureati a mille euro al mese

Il lavoro è un privilegio in Piemonte? Per i giovani, ai quali era stato “promesso” che il percorso di laurea avrebbe spalancato orizzonti e percorsi è stata una delusione. Si è allungato il gap tra l’ideale e il reale, costringendo a dolorose reazioni. Secondo il Progetto giovani redatto dall’Ires, nel 2001 su 100 laureati 71 dichiaravano di lavorare, mentre meno di 60 laureati magistrali nel 2009 l’anno successivo possedevano un’occupazione.

Per quanto riguarda le tipologie di laurea, il più elevato tasso di occupazione è appannaggio di insegnanti e docenti di educazione fisica. Seguono architetti, mentre ad agraria si registra un’elevata incidenza di lavoratori autonomi (1 su 4). Buone le performance dei laureati in lingue, ingegneria ed economia, settori in cui – soprattutto negli ultimi due casi – la maggioranza dei giovani inizia a lavorare subito dopo il conseguimento del titolo. All’opposto, la disoccupazione affligge i laureati in psicologia, lettere, scienze politiche, studi che producono 1 giovane su 3 in cerca d’impiego un anno dopo la laurea.

Secondo Daniela Musto e Alberto Stanchi, curatori della ricerca, «un segnale preoccupante è la crescita del lavoro nero: sono in questa condizione 5 laureati magistrali su 100 occupati a un anno dal titolo. I contratti “flessibili” caratterizzano, in particolare, il settore pubblico, area in cui buona parte dei giovani con laurea lavora con un contratto di collaborazione (35 per cento) o a tempo determinato (31 per cento), contro percentuali del 22 e del 21 nel privato». Dopo un anno di lavoro i laureati dichiarano di guadagnare circa 1.200 euro netti al mese se sono maschi e la cifra scende a mille se si tratta di donne.

Come reagire? Sovente le statistiche deprimono, fiaccano il morale. Spingono ad accontentarsi, ad accettare forme contrattuali penalizzanti, a ritenere il lavoro un privilegio. In apparenza negative, le cifre nascondono invece un sistema in profondo mutamento. Spiegano i ricercatori Ires: «Il peggioramento della condizione occupazionale dei laureati non dev’essere attribuito al fatto che i laureati sono diventati troppi: l’Italia, con 20 laureati su 100 individui di 30-34 anni, si colloca nella penultima posizione della classifica europea per diffusione di titoli di studio di livello terziario. È piuttosto la domanda di lavoro a essi rivolta a non essere aumentata in misura proporzionale. I laureati, dal canto loro, devono essere consci della situazione lavorativa che li attende e impegnarsi a integrare la formazione con competenze linguistiche e informatiche, con esperienze all’estero (suggerimento che dev’essere accompagnato da adeguate politiche universitarie e di supporto economico), nonché con stage e tirocini, gli unici strumenti che non solo consentono di conoscere il mondo del lavoro e di farsi conoscere da esso, ma che danno un valore aggiunto nella ricerca di un’occupazione».

m.v.

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