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Una nuova alba a Ceresole

I profughi di cascina Belvedere al lavoro nei campi.

IMMIGRATI A volte le storie più difficili ci sorprendono dietro casa. O nel cortile di una cascina spersa nella campagna, a pochi chilometri dal centro del paese. Proprio come le storie di Marcel e John, nigeriani, scappati dalla Libia insieme alle loro famiglie quando nel Paese retto dal colonnello Gheddafi infuriavano gli scontri. I nomi che usiamo sono di fantasia, ma non le loro vicende. Le raccontano in poche parole, in un inglese basico in cui ritorna costante l’aggettivo tough, arduo. Così descrivono le esperienze che li hanno portati a trovare rifugio nella cascina Belvedere, e in particolare, il viaggio verso Lampedusa. Tre giorni di angoscia su una carretta del mare, senza la certezza di sopravvivere. «A bordo c’erano circa settanta persone, tra cui tantissimi bambini, alcuni molto piccoli come i miei», racconta John. «Il cibo finì subito. Piangevamo». Poi, il morso della felicità, aspro come gli scogli di Lampedusa finalmente sotto i piedi. Su ordine della Prefettura – «una cui commissione dovrà stabilire, entro dicembre, se concedere loro lo status di rifugiato politico», ricorda Elena Alunno, responsabile della fondazione Difesa del fanciullo, che gestisce la cascina ceresolese – John si trasferisce prima a Torino, dove per circa un anno fa il saldatore e stringe amicizia con molti italiani, e poi a Ceresole.

Ad accogliere nella cascina Belvedere John e Marcel, le loro mogli, i loro quattro bambini (dai 5 anni ai 12 mesi) e le altre due famiglie di profughi, che hanno fatto rinascere il progetto “L’alba di Ceresole” dopo tre anni di inattività, è Lorenzo Bruno, volontario “a tempo pieno”. Poche parole, molti fatti, come la gente del paese, che si è data da fare, offrendo indumenti, lezioni di italiano o di cucina e garantendo per i piccoli l’iscrizioni all’asilo Artuffi. «Sono occasioni di contatti e lavoro», spiega Bruno, «per favorire l’integrazione».
Le più pronte a cogliere le occasioni di “inserirsi” paiono le donne. Attraverso la cucina roerina, su cui si esercitano due volte a settimana con Margherita Coraglia e Piera Bergese, o lo studio dell’italiano, insegnato da Stefania Bonetto e Simona Fogliato. «Sono motivate da una grande voglia di imparare. Nonostante i figli piccoli in braccio, eseguono sempre con impegno gli esercizi di grammatica», dicono le loro maestre.

I profughi di cascina Belvedere al lavoro nei campi.

Il processo d’integrazione, però, è ancora lungo, reso difficile anche da una certa “resistenza” opposta dagli immigrati “di prima generazione”, che tendono a rapportarsi con i soli connazionali e mantenere ritmi e abitudini differenti da quelli italiani. Ma Bruno è positivo: «Sarà poi la seconda generazione a vivere la transizione, aprendosi al “nuovo” pur conservando la cultura dei genitori».

Alannah Doglio

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