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Dietro la maschera DI SARAJEVO

REPORTAGE Tra Alba e Sarajevo non vedi grandi somiglianze, ad esclusione della corona di colline che circonda i palazzi e chiude le strade come in un sacchetto: protettivo da una parte, trappola per topi dall’altra. Almeno così è stato per la Capitale bosniaca, che dal 1992 al 1996 ha subìto il «siege » – l’assedio – più lungo della storia moderna. Quasi non importa chi fossero i nemici: i cecchini dalle colline e le granate sui civili fecero dodicimila vittime, nessuno poté uscire dalla città in quel periodo e i cibi si contavano sulla mano.

Eppure, camminando per le strade di Sarajevo la scorsa settimana quattro giovani albesi vedevano una città con pub all’europea, club musicali alla moda, gioiellerie e hotel extralusso, grattacieli e caffè con donne eleganti. Non è la Sarajevo dell’immaginario comune, ancora bucherellata dalle vicissitudini belliche, associata nelle credenze a immagini di rovina, resti fumanti e polvere da sparo. La somiglianza con Torino o Milano – almeno per le “funzioni” e le occasioni tra le vie del centro – è indubitabile, ma è stato sufficiente girare gli angoli dei musei, indirizzare una conversazione sul passato invece che sul presente per capire che di normale, a Sarajevo, è rimasto poco.

La maschera cade: Alan, il titolare di un ostello racconta della Sniper Alley, la via principale che avevamo appena percorso non vedendo altro che vetrine luccicanti. «Era la strada più pericolosa. Chi passava veniva quasi certamente colpito dai cecchini serbi nascosti nei palazzi di fronte. Un giorno mio padre la attraversò. Incurante del pericolo, voleva incontrare mia madre dall’altra parte del quartiere. L’ho visto accasciarsi a pochi passi da me, colpito a un ginocchio. Feci per soccorrerlo ma mi trattennero: i cecchini non aspettavano che un altro bersaglio si esponesse. Vidi mio padre trascinarsi sulle braccia per mettersi al riparo. I cecchini spararono ancora: prima nell’altra rotula, poi nelle spalle, nei gomiti. Prolungavano la sua agonia. Più tardi seppi che scommettevano su quanto sarebbe stata lunga la striscia di sangue lasciata sul pavimento, prima che si accasciasse al suolo». Alan non ha più potuto recuperare il corpo del padre. Ancora oggi sente il rumore delle bombe.

E di storie simili ce ne sono ovunque. Una guida turistica racconta che i soldati buttavano granate durante i funerali o i battesimi, in modo da uccidere più gente possibile. E che un giorno vide il “miracolo”, sentendo il celebre Vedran Smailovic suonare sul suo violoncello un Adagio in diverse ore del giorno per 22 giorni, per onorare la memoria di 22 civili uccisi mentre facevano la fila per il pane. Vedran teneva lo strumento e l’archetto come se fosse a teatro, incurante per la propria incolumità. Altre storie si agitano dietro l’apparenza di Sarajevo. Come quella delle donne che, in mancanza di cibo, facevano torte senza farina e bistecche senza carne ed erano diventate talmente brave che nessuno riconosceva la differenza tra quegli intrugli e il cibo mangiato prima della guerra.

Sarajevo

Infine, uno slovacco, un turista incontrato per caso: «Avete paura della crisi? Prima di venire qui ero terrorizzato. Poi, ho visto che un popolo intrappolato in un inferno per quattro anni non solo può sopravvivere, ma può ricostruire con un’arte e una creatività quasi folli. Le persone sono forti. Usano le sofferenze per diventare più grandi». Ce ne siamo andati con questi frammenti di vita, piccole immagini di storie. Ce ne siamo andati da Sarajevo bevendo l’acqua della fontana antica, in centro: chiunque la beve, si dice, prima o poi ritornerà. Matutti a Sarajevo sembrano esserci già stati. Se lo sono solo dimenticati.

Matteo Viberti

Nel sangue dei Balcani, vent’anni dopo

Le guerre jugoslave hanno coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica socialista federale di Jugoslavia tra il 1992 e il 1996, causandone la dissoluzione. Prima c’era Josip Broz, nome di battaglia Tito, il maresciallo dittatore, la cui presenza garantiva una relativa unità politica tra popoli ostili. Alla sua morte tutto si confuse, la Repubblica si frantumò e l’aggressività si sprigionò in maniera incontrollata. A vent’anni di distanza, in un viaggio di due settimane, quattro albesi hanno attraversato i Balcani. L’obiettivo – giornalistico ed esistenziale – era di recuperare testimonianze. Di materiale bibliografico sugli eventi dell’ex Jugoslavia sono pieni gli indotti editoriali e i siti Internet, ma il contatto “incarnato” con le esperienze nessun resoconto, cronaca o reportage potrà sperare di restituirlo. Dicono le cifre diffuse dal Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo che i morti della guerra in Bosnia ed Erzegovina furono 93.837 accertati, di cui 63.687 bosniaci, 24.216 serbi, 5.057 croati e 877 jugoslavi. Il 29 febbraio 1996 è la data della fine ufficiale dell’assedio, come dichiarato dal Parlamento bosniaco. La guerra si chiuse con la firma d e l l ’ A c c o r d o d i Dayton il 21 novembre 1995 e con il Protocollo di Parigi il 14 dicembre 1995, ma i serbi violarono anche la pace, sparando razzi su Sarajevo ancora il 9 gennaio 1996, uccidendo una persona e ferendone 19. Tra gli eventi principali della guerra ci fu l’attacco di Sarajevo, che si protrasse dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, mietendo 12 mila vittime e oltre 50 mila feriti, l’85 per cento dei quali civili. Altro episodio fondamentale è stato il massacro di Srebrenica, ovvero l’esecuzione di migliaia di musulmani bosniaci nel luglio 1995 da parte delle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic. Secondo le istituzioni ufficiali i morti furono oltre 8.372, mentre non si hanno ancora stime precise del numero di dispersi. Fino a oggi 6.414 salme riesumate dalle fosse comuni sono state identificate. Nascoste dietro agli angoli delle strade, dietro le conversazioni della gente, dietro le costellazioni familiari, rimangono nell’ex Jugoslavia ferite che si ostinano a non cicatrizzarsi.

m.v

Mesa, che la sua guerra non l’ha ancora finita

La sua storia la racconta Mesa. È il proprietario di una guest house di Mostar, la cittadina distrutta dalle bombe e poi riedificata. Mesa è un trentacinquenne esuberante, un combattente di judo che per un certo periodo ha insegnato ai poliziotti bosniaci le mosse per l’autodifesa. Poi ha dovuto interrompere per un incidente, quando ha voluto «sfidare la natura, scalando una roccia senza imbracatura»: il salto di dieci metri l’ha rotto in due, ma non gli ha tolto la voglia di rischiare. Mesa, insomma, è un guerriero. Quando parla della guerra, la sua voce è quella di un bambino e i suoi movimenti si placano, come rinunciando alle difese.

«Della guerra posso dire due cose: la prima è che mia moglie ha perso il padre proprio qui, a Mostar. Eraun civile e le truppe l’hanno sgozzato. Ancora oggi cerchiamo il corpo. La seconda è la storia di Filippo, un amico di Srebrenica. Lo chiamiamo così perché è scappato in Italia dopo il massacro del 1995. È la persona che mi manca di più: era bambino quando le truppe comandate da Mladic sono arrivate nel suo paesino e hanno giustiziato ottomila persone in un solo giorno. Dopo il genocidio Filippo è scappato nei boschi, imbracciando un fucile contro i carri armati. Quando è finita la guerra ha raggiunto l’Italia, non poteva più stare dove tutto era perduto».

Mesa spiega che le due storie per lui sono i tasselli di uno puzzle: un padre che non può essere ritrovato e un bambino che non vuole essere ritrovato. «Per un turista le cose sembrano “normali”. Ma il nostro popolo non si è ancora “ritrovato”. Una parte del cuore e del corpo è rimasta in guerra». L’uomo ci porta per le vie di Mostar, indicandoci i luoghi dove esplosero le bombe e dove lui vedeva ogni giorno persone e amici morire: «È per questo che mi sono indurito, che non ho più paura di nulla.Oforse ho paura di tutto», dice. Poi si alza il pantaloncino e fa vedere il polpaccio: tre cicatrici. «Tre colpi di striscio, quando ero solo un ragazzino. Sono il promemoria che mi porto addosso: non dare mai niente per scontato ». Il presente? Mesa spiega come gli stipendi di un commesso arrivino ai duecento euro, come i politici siano corrotti e preferiscano riempirsi il portafoglio piuttosto che creare lavoro, come il suo desiderio di venire in Italia non potrà mai essere esaudito. «E poi c’è il ponte. Ecco, il ponte. Quella striscia che collega una sponda all’altra del fiume. È alto venti metri. Un giorno riuscirò a lanciarmi da lassù. Quando lo farò, significherà che qualcosa è cambiato».

m.v.

Zavidovici, il paese da cui tutti i giovani vogliono fuggire

Alice Riccardi è la presidente dell’associazione albese Strani Vari, che da dieci anni, in partnership con l’Ufficio della pace comunale, raggiunge Zavidovici per allestire e condurre campi estivi per bambini e ragazzi bosniaci. La sua voce è quella di una ragazza che, laggiù, ha lasciato un pezzo cruciale di sé.

«In tutti questi anni almeno un centinaio di ragazzi albesi hanno conosciuto e lavorato a Zavidovici, centro a 100 chilometri da Sarajevo», spiega. «È una cittadina che annaspa nella disoccupazione (quasi uno su due non ha lavoro) e che non si è mai del tutto ripresa dalle barbarie della guerra. La fabbrica di legname che dava da vivere è caduta in rovina in concomitanza all’esplodere dell’odio politico e religioso».

Alice ha dedicato alla Bosnia la tesi universitaria e ha vissuto nel «Paese-dei-massacrati » per otto mesi. Racconta di confini e muri etnici mai superati, intere popolazioni divise dal conflitto: «Ognuno ha una sua versione su come andarono le cose. Non bisogna giudicare in modo avventato, bisogna svuotare la mente e rinunciare a capire fino in fondo la natura di quel dramma». Come a dire: certe cose superano la teoria o la conoscenza. Serve solo l’esperienza. Per quanto riguarda il futuro, Alice spiega come «la fiducia della popolazione sia poca. Il sistema politico è corrotto, e il sogno più grande dei ragazzi di Zavidovici è andarsene. Il loro più grande rammarico, invece, è di non poterlo fare».

Strani Vari continuerà a operare in Bosnia in collaborazione con l’Ambasciata della democrazia locale. Oltre ai campi estivi, sono operativi progetti sulle tecniche agricole, sull’integrazione, sulla multiculturalità. Il ponte tra Alba e Zavidovici garantisce pure la memoria: «Spesso ci si dimentica della Bosnia».

m.v.

 

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