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La mia vita in cooperativa

Sospeso un dipendente Ant in servizio al magazzino Dimar di Roreto: il sindacato Sì Cobas chiede risposte soddisfacenti entro martedì

LA STORIA Parliamo con uno dei lavoratori coinvolti nella questione legata alle cooperative. Lo chiameremo Antonio: la sua è una vicenda condita di disumanità, costruita sulla complessità burocratica e sulla vischiosità normativa che caratterizza il sistema dei contratti lavorativi odierni.

Come inizia la tua storia, Antonio?

«Nel 2011 lavorai sette mesi per la filiale albese di un noto gruppo cooperativo: facevo il mulettista o il magazziniere. Circa un anno e mezzo fa arrivò a casa una raccomandata dell’ufficio dell’Ispettorato del lavoro di Cuneo. Era un’ingiunzione, rivolta alla cooperativa, per il pagamento di una cifra a tre zeri nei miei confronti. Mi informai, prima a Cuneo, presso l’Ispettorato e poi presso i sindacati: mi consigliarono un avvocato di Bra. Scoprii che la busta paga registrava una somma di gran lunga inferiore rispetto a quanto avrei dovuto percepire. L’avvocato richiese il pagamento aggiuntivo, ma nessuno provvide al conguaglio. Quindi, arrivammo al processo. Nei fogli giudiziari di cui dispongo, i nomi delle persone coinvolte sono oscurati. Ma ho contato almeno venti colonne tutte “dedicate” ad Alba. Ovvero, circa venti lavoratori».

Può spiegarci quali sono le irregolarità che avrebbe commesso la cooperativa nei suoi confronti?

«Mi ha inquadrato come addetto alle pulizie senza dirmelo. Così, potevano essere giustificati gli stipendi da fame. A ciò si aggiunga che, sebbene in sette mesi non sia stato male, la prima volta che sono mancato sul lavoro, mi hanno lasciato a casa senza pensarci».

Come andrà a finire?

«Al processo dovrò portare testimoni che confermino la mia posizione. Anche la cooperativa ha testimoni però, sicuramente pronti a giurare qualsiasi cosa. Io so solo che, dopo più di un anno dalla chiusura del rapporto professionale, e nonostante il processo in corso, a nessuno interessa questa storia. Forse questa “lontananza” è giustificata dal fatto che la maggior parte delle persone ha paura di non lavorare più o di farsi una cattiva fama a denunciare quello che accade».

Come si sente?

«Non siamo tutelati, stiamo perdendo diritti che i nostri nonni hanno conquistato. Parlo dei diritti come lavoratori, ma anche come persone».

Matteo Viberti

«Dico nulla contro chi mi dà il lavoro»

IL PUNTO Il mondo delle cooperative, comespiega l’assessore albese al lavoro Olindo Cervella, «è pilastro fondamentale del tessuto occupazionale, perché coniugadomanda e offerta e procura lavoro a chi non l’avrebbe: in un contesto di crisi, questa funzione emerge con schiacciante evidenza».

Eppure, non manca il lato oscuro. A causa di una normativa incerta, di una burocrazia contorta e di un’insufficiente sorveglianza, possono accadere macchinazioni ai danni di sprovveduti lavoratori. Gazzetta aveva documentato circa due settimane fa come pure ad Alba – ad esempio nel settore vitivinicolo – esistano universi che travalicano il confine della legalità. Ci aveva spiegato un vendemmiatore immigrato: «Ad Alba alcune cooperative di lavoratori gestite da stranieri propongono contratti fasulli: i soci dovrebbero lavorare una settimana, ma continuano per almeno un mese (in nero): spesso, terminato il minicontratto, i capi delle cooperative propongono ai braccianti pagamenti ingiusti (5 euro all’ora) in alternativa al licenziamento. Chiunque accetterebbe la proposta pur di non morire di fame». Così, mentre il proprietario vitivinicolo continua – ignaro dell’escamotage – a pagare 10 euro l’ora gli addetti, i gestori della cooperativa intascano la differenza, ovvero 5 euro netti ogni sessanta minuti.

Come racconta un anonimo lavoratore, ad Alba una cooperativa che svolge servizio alle imprese – sede a Milano e filiali in tutta Italia – è coinvolta in un processo per aver sottopagato alcuni addetti. In pratica, secondo l’accusa, il dipendente riceverebbe una retribuzione come“addetto alle pulizie”, mentre fa il mulettista, il magazziniere, l’addetto alle vendite. Impossibile conoscere tutta la vicenda, perché le “vittime”preferiscono non esporsi. Come ci spiega Manuela Baldracco, avvocato di uno dei lavoratori, «lo scorso 18 ottobre si è tenuta un’udienza. Ma il risultato dell’ispezione della Direzione territoriale del lavoro – il procedimento che aveva rilevato irregolarità nella dinamica contrattuale e retributiva dei dipendenti – è stata contraddetta. Un’ispezione, in effetti, potrebbe anche risultare errata al momento degli accertamenti. Bisognerà aspettare la prossima udienza. Certo è che le normative di assunzione e trattamento del dipendente possono essere aggirate. Dovrebbe essere il Parlamento a semplificare e rendere più sicuro il sistema normativo».

In tempo di recessione la vulnerabilità del lavoratore aumenta, perché la paura di rimanere senza lavoro conduce all’accettazione di condizioni contrattuali precarie. Esemplificative le parole di una donna di mezz’età, che lavora per una cooperativa che gestisce il servizio di pulizia di una grande azienda: «Sovente lavoro cinquanta ore settimanali. Il miostipendio arriva a malapena a mille euro al mese. Eppure, me lo tengo, il mio lavoro, non direi mai nulla contro chi me lo dà. Ringrazio per ciò che ho, non sto certo a pensare a quello che non ho».

m.v.

Ecco perché abbiamo ragione

Diamo la parola alla controparte: Giovanni Reho, avvocato milanese che difende la cooperativa nel processo in corso.

Ci può spiegare che cos’è accaduto, Avvocato?

«La vicenda trae origine da una diffida accertativa effettuata nei confronti della società cooperativa da parte della Direzione provinciale del lavoro di Cuneo. Secondo questa diffida, i contratti di lavoro stipulati da soci lavoratori devono rivestire la forma del contratto di lavoro subordinato. Invece, i lavoratori coinvolti avevano un contratto “non subordinato”: perciò siamo stati incriminati. Eppure, la legge 142 del 2001 che disciplina il rapporto tra cooperativa e soci lavoratori consente ben quattro forme di contratto di lavoro liberamente opzionabili, tra cui anche quelle atipiche, utili al perseguimento degli scopi sociali. Si tratta di un regime giuridico speciale previsto per le sole società cooperative. Questo regime prevede che i soci della cooperativa, che hanno stipulato un contratto di lavoro non subordinato, abbiano diritto a una retribuzione minima garantita».

Quindi la diffida sarebbe ingiustificata?

«La diffida accertativa è uno strumento estremamente insidioso per un datore di lavoro, poiché autorizza un giudizio e una condanna prima ancora che il destinatario delle conseguenze sanzionatorie sia in grado di difendersi. Una vera e propria sanzione “senza processo”, e senza diritto di difesa. La questione è stata sottoposta alla magistratura competente, la quale ha già accertato e stigmatizzato la grave anomalia, sospendendo l’efficacia della diffida accertativa (e conseguentemente di qualsivoglia eventuale credito da parte dei soci lavoratori) e imponendo la necessità di un accertamento concreto».

Insomma, la cooperativa avrebbe operato entro i limiti della legge. Eppure, i dipendenti dicono di aver ricevuto un trattamento ingiusto. Quale sarebbe la soluzione affinché i diritti di tutti vengano tutelati?

«È necessario che anche il legislatore sia aperto a favorire nuovi meccanismi, che consentano a lavoratori e imprese di instaurare una maggiore solidarietà sociale. È preferibile, ad esempio, sospendere le retribuzioni aggiuntive previste dai contratti collettivi, garantendo una retribuzione minima costituzionale certa e continuativa, invece del licenziamento senza alcuna possibilità di reperire un nuovo lavoro. Ciò preverrebbe anche il fenomeno di emorragia delle aziende, che chiudono i battenti e si trasferiscono all’estero per evitare gli eccessivi oneri. Non dimentichiamo che spesso queste aziende, prima di emigrare, sfruttano la collettività usufruendo delle integrazioni salariali e della mobilità ovvero attingono a soldi pubblici e indeboliscono ulteriormente il sistema».

m.v.

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