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Il cru è come un concerto

BAROLO Non è facile tradurre in italiano con un solo termine il francese terroir. “Terreno” non basta e non è adatto nemmeno “territorio”: terroir è molto di più.

Mercoledì scorso al castello di Barolo, in un convegno promosso dall’azienda “Ceretto”, Lydia Bourguignon, che col marito Claude ha fondato un importante laboratorio di analisi microbiologica del suolo, il Lams, ne ha dato una definizione suggestiva ed efficace: «Il terroir è come un concerto: il terreno è la partitura, la pianta è lo strumento e l’uomo è l’interprete».

E, allora, in questo ambito il cru cos’è? Sviluppando il concetto di Lydia Bourguignon, potremmo dire che il cru è uno straordinario concerto, dove il terreno ha una ricchezza originalissima, capace di dare un vino molto caratterizzato, la pianta è un vitigno dai caratteri straordinari e l’uomo è un interprete sapiente, non solo professionale, ma anche sensibile, colto e saggio.

Anche se Lydia e Claude Bourguignon non condividessero la nostra definizione, ne abbiamo ammirato l’entusiasmo e la convinzione con cui hanno sostenuto che il terreno, sia dal punto di vista microbiologico che chimico, è un patrimonio di enorme ricchezza e unicità. L’immagine di quelle “fogliette” di argilla che accolgono tra loro gli elementi nutritivi per la pianta si è accompagnata all’altra immagine dei tanti microrganismi che lavorano il terreno e l’aiutano a mantenersi aerato per dare ossigeno alle radici anche in profondità. Così, l’apparato radicale della vite non si accontenta di uno sviluppo superficiale e non rinuncia a quelle sostanze nutritive di profondità che rappresentano l’essenza vera del cru dal punto di vista del suolo.

Ascoltando il racconto di Lydia e Claude Bourguignon ci veniva in mente il comportamento sbadato e, alcune volte, presuntuoso di quei viticoltori che al terreno hanno fatto o continuano a fare ogni tipo di affronto: quanti pesticidi inutili sono stati riversati sul suolo delle colline di qui come di altre zone, Francia compresa! Quanti diserbanti o disseccanti sono stati usati più per pigrizia mentale che per effettiva necessità operativa, senza tenere conto che queste sostanze nocive da qualche parte si sarebbero poco per volta depositate.

«In un grammo di terreno – ha concluso Claude Bourguignon – ci sono milioni di microrganismi e la loro presenza è fondamentale: favorisce l’alimentazione delle piante e trasforma gli elementi specifici di un determinato suolo in ricchezza olfattiva del suo vino. Perciò, non possiamo ritrovare in un vino da cru i profumi di quel cru se non abbiamo un terreno vivente».

Gerard Boudot del Domaine Etienne Sauzet, in Borgogna, è stato uno di quelli che ha fatto il mea culpa senza troppe perifrasi. «Nei decenni passati abbiamo maltrattato il terreno, l’abbiamo invaso di quantità esagerate di pesticidi. A metà degli anni Novanta, ci siamo accorti che stavamo distruggendo tutto: impoverivamo la ricchezza microbica dei suoli col rischio di compromettere le ricchezze olfattive dei vini. Così, abbiamo fatto marcia indietro, ma dobbiamo proseguire su questa strada: il rispetto del terreno non dovrà mai più venire meno».

Alessandro Ceretto ha raccontato il lungo recupero, avviato nel 2003, di una vigna in Cannubi, a detta di tutti il più grande cru del Barolo. Anche in questo caso, è emerso un dato: la vigna non ha bisogno di “viticoltori-Rambo”, di interventi mirabolanti o di protezioni chimiche esagerate. Si accontenta di molto meno. Alla fine, però, i risultati organolettici sono più complessi e tipicizzati.

Si è parlato anche di normative e delle differenze tra le nostre zone e quelle francesi. Qualcuno si è chiesto se il Barolo e il Barbaresco avranno mai una classificazione gerarchica dei cru come in Francia. Una domanda rimasta senza risposta. Il buon senso consiglierebbe di accontentarsi di ciò che si ha. In Francia la gerarchia tra i cru risale a molto tempo fa ed è stata fatta in modo unilaterale. Non è così sulle nostre colline: le nostre “Menzioni geografiche aggiuntive” sono state delimitate poco tempo fa, prima nel Barbaresco e poi nel Barolo. Questo era il massimo che si poteva fare.

Più che sfogliare il solito libro dei sogni bisognerebbe fare tesoro dello stimolo del giornalista Ian D’Agata nel suo intervento conclusivo: «Voi del Barolo e del Barbaresco dovreste andare orgogliosi di ciò che avete fatto. Avete portato a termine un lavoro serio e ponderato e in questo ancora una volta siete stati i primi in Italia».

Giancarlo Montaldo

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