Ultime notizie

La vera posta in gioco nelle prossime elezioni

La sfida fondamentale che sta davanti all’Italia è quali scelte di politica economica compiere per far uscire il paese dalla profonda crisi economica e sociale. La risposta è legata alla lettura che si dà della crisi stessa, delle cause che ne vengono individuate. Chiariamoci prima di tutto il concetto di causa. Secondo alcuni come Beppe Grillo la colpa della crisi è dei politici corrotti. Che la classe dirigente italiana sia oggi mediamente di basso livello tanto intellettuale quanto morale è vero, ma questa non è una causa, è un’aggravante, nel senso che politici corrotti e ignoranti non hanno gli strumenti o la volontà per compiere le analisi e affrontare le scelte necessarie. Quindi il recupero dell’etica pubblica è condizione necessaria per nuove linee di politica economica, ma è ben lontana dall’esserne sufficiente.

Sgombriamo il terreno da un’altra teoria illusoria, che la crisi non esista. Lo ha sostenuto per anni Berlusconi, come Mussolini nei discorsi della primavera 1930 irrideva l’Inghilterra e i suoi 2 milioni di disoccupati, sostenendo che mai la crisi sarebbe arrivata in Italia, protetta dal suo sistema corporativo. Pochi mesi dopo il Duce fu smentito. Così in questi giorni Berlusconi, non potendo negare la recessione in cui il paese sta annegando, oltre a scaricarne tutta la colpa su Monti, ha ribadito che lo spread, sulla cui impennata un anno fa fu costretto a dare le dimissioni, è l’invenzione di non meglio specificati complottisti.

La crisi dunque esiste ed è ufficialmente iniziata nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers, così come quella degli anni ’30 cominciò con il venerdì nero di Wall street il 24 ottobre 1929.

Ma quali le letture della crisi? La più semplice è quella del “nemico” che sabota l’economia, ruba i posti di lavoro o fa concorrenza spietata all’esterno. La caccia al nemico interno (ebrei, comunisti, marxisti in genere) fece la fortuna di Hitler. La versione moderna di quella interpretazione della crisi sono i movimenti xenofobi sorti in Europa, di cui la Lega Nord è la manifestazione più grottesca.

La teoria del nemico esterno, cioè della pesante concorrenza cinese o in generale dei paesi Brics, ha invece padri meno sgangherati. È quella di Marchionne. Le ricette che ne derivano sono la riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori.

Questa posizione si intreccia spesso con un’altra, secondo la quale la causa della crisi sta nel debito pubblico. Fu fra il 1930 e il 1932 la politica di rigore e deflazione del cancelliere Brüning in Germania, nonché del presidente americano Hoover. Oggi è la linea di Angela Merkel e, con piccole varianti, di Mario Monti. Il nodo centrale di questa politica è il fiscal compact, cioè la riduzione ad ogni costo del debito pubblico, senza riguardo per lo Stato sociale o per la crescente povertà.

Tutte le interpretazioni della crisi elencate possono essere definite di destra, perché conculcano o anche solo ignorano le diseguaglianze sociali. Invece la radice dei problemi sta proprio lì.

Le due crisi economiche, quella degli anni ‘30 e quella odierna, sono nate a Wall street sotto forma di bolle, la prima finanziaria, la seconda immobiliare-finanziaria. Senza scomodare Karl Marx profeta delle crisi cicliche del capitalismo, nel 1984 Hyman Minsky, uno degli ultimi economisti keynesiani (nell’America di Reagan i seguaci di Keynes si sono ritrovati senza alunni e senza cattedra per il dirompente successo dei Chicago Boys, il neoliberismo della deregulation e l’invenzione matematica di prodotti finanziari di secondo, terzo grado, cioè senza ancoraggio a beni materiali, di pura fantasia come le allucinazioni del matematico John Nash, quello di A beautiful mind, premio Nobel per l’economia) pubblicò un saggio sulla crisi del ’29 dal titolo Can it happen again? Può di nuovo capitare? La risposta fu: capiterà di nuovo fra 25-30 anni, perché le tendenze odierne della società stanno ricostruendo le condizioni di una crisi globale. Quali erano quelle tendenze? L’accrescimento delle disuguaglianze sociali. Quando più del 50% del reddito di un paese decisivo come gli Stati Uniti finisce nelle mani di una ristretta minoranza, si formano masse di denaro non più disponibili per i consumi o gli investimenti, ma esclusivamente per la speculazione. Dagli anni ’80 ad oggi, come documentato dall’Ocse, le disuguaglianze sociali sono aumentate vertiginosamente in America, in Inghilterra e in Italia (meno in Germania e Francia, per nulla in Svezia, che in barba a un superarticolo 18 a difesa dei lavoratori attira la quota più elevata al mondo in investimenti stranieri). Le ricette economiche della destra (deregulation nel boom, restrizioni nella crisi e demolizione del welfare) hanno finora spadroneggiato. Negli anni ’30, lasciando perdere i piani quinquennali sovietici (inaccettabili per alcuni contenuti e soprattutto per i metodi di applicazione), alle soluzioni liberali (e a quelle reazionarie del nazifascismo) si contrapposero quelle keynesiane, le quali conobbero un’ulteriore fioritura all’uscita dalla 2ª guerra mondiale. Fu allora che nacque il welfare in stretto collegamento con l’intervento pubblico in economia. Oggi le ricette di Keynes non sono applicabili tout court, perché, si dice, in Italia il debito pubblico è troppo elevato. Vero: ma perché non lo si abbatte radicalmente con una patrimoniale una tantum sulle grandi ricchezze? Eppoi oggi una politica keynesiana non potrebbe essere svolta esclusivamente a livello di singoli stati. Infatti va proposta a livello europeo, dove esistono grandi e piccoli stati con debito pubblico minimo. Allo stesso modo oggi non si può prescindere dalla questione ambientale, dall’esaurimento delle risorse e dalla necessità di avviare un diverso modello di sviluppo (ma qualcosa c’era già stato nel new deal di Roosevelt). Questi sono modelli a cui ispirarsi! Il programma del centrosinistra non può che essere alternativo non solo al populismo istrionesco di Berlusconi, ma anche alla cosiddetta Agenda Monti, un documento vuoto, fatto solo di titoli (non si parla neppure di politica estera e di questioni relative alla spesa militare), in cui l’unico capitolo dettagliato è quello scritto dal transfuga Ichino, vale a dire la demolizione dei diritti dei lavoratori. Ma se l’Agenda Monti è nella maggior parte dei passaggi vaga e ambigua, quello che in poco più di un anno ha fatto il conservatore professore della Bocconi (“conservative” lo definiscono i politologi europei, visto che l’uomo ogni tre frasi ha sulla bocca la parola Europa) non lascia dubbi sulla fallacia e sull’iniquità delle sue ricette. L’azione conta più dell’agenda.

Livio Berardo, Sinistra ecologia libertà

Banner Gazzetta d'Alba