L’UOMO che dormiva sul tetto del tribunale

LA STORIA Questa non è una storia da leggere. È un appello per cambiare. Parla di un uomo costretto a dormire su un letto di radici sopra il tribunale (che ad Alba ha una “copertura” arborea), elemosinare spiccioli a suore e preti, fuggire. Parla Ron, marocchino cinquantenne. Lavoratore, uomo di fede. Lo incontriamo in un bar vicino a piazza Cristo Re. Ci raggiunge zoppicando, chiuso nel suo impermeabile giallo. Ha uno zaino: di lì a poco sapremo che è l’unico suo possedimento. Contiene solo medicine e un plico di documenti. Ci sediamo e comincia a raccontare col viso pulito, fiero ma roso dalla spossatezza.

Ron è in Italia da 23 anni, ad Alba da 16. Hasempre lavorato: ci mostra documenti, buste paga, contributi. Tutto in regola. Aveva un monolocale in città, provvedeva a se stesso ed era felice. Poi l’incidente sul lavoro. Guardando, vediamo che la mano destra è diversa, inutilizzabile. Dopo l’incidente Ron ha perso occupazione, casa e progetti. È rimasto solo e malato: oltre all’handicap alla mano soffre di una patologia progressiva che gli immobilizza le gambe – ecco perché zoppica – e di un problema alla vista.

«All’improvviso mi sono ritrovato solo», spiega. «Non sapevo dove dormire, ho recuperato scatole di cartone per ripararmi e ho dormito sopra al tribunale. Era agosto. La sera seguente un amico mi ha regalato sacchi della spazzatura con cui ho costruito una tenda. Ho dormito cinque mesi sotto quella pianta. Quando pioveva la terra si bagnava e l’acqua mi arrivava alla schiena. Ero costretto a scappare in ospedale».

Ron ha dormito sopra al tribunale per cinque mesi. Andiamo a fotografare il posto: è tutto vero. Un uomo disperato che dorme in un luogo di giustizia non è solo un paradosso, ma una crudeltà. Gli facciamo mille domande. Risponde rassegnato, «stufo di aggrapparsi alla vita con i denti». Prende 150 euro al mese di invalidità, che invia in Marocco ai suoi tre figli. Dunque, non ha soldi, non mangia quasi mai a pranzo, le medicine le prende a stomaco vuoto. Alla sera si rifugia nel dormitorio della Caritas, da cui però è costretto a uscire alle sette del mattino. Che cosa fai tutto il giorno per Alba?, chiediamo. «Vado in giro», ma ho freddo. Non vedo quasi più nulla e non posso comprare gli occhiali (ci mostra il preventivo delle lenti richiesto in un negozio di ottica: servirebbero 250 euro, inarrivabile miraggio). Alla fine sospira: «Sono demoralizzato, non so quanto resisterò ancora». Non vuole tornare in Marocco, perché dopo un’intera esistenza trascorsa tra le colline si sente italiano. «Che cosa andrei a fare in Africa?». Ovvio, non avrebbe nemmeno i soldi per il biglietto. P

rima di salutare Ron lo guardiamo. Sguardo privo di rabbia o rancore. Solo una terribile, insanabile distanza. Mentre scriviamo questa storia lo immaginiamo fuori, a pochi metri da noi, claudicante, batte i denti nel suo impermeabile giallo. Gli chiediamo come vuole che finisca questa storia. Come vuole concludere l’articolo di giornale, unica sua speranza di ricevere soccorso. Dice solo: «Scrivete: “Dio c’è”. Finite così l’articolo. Scrivendo in questo modo: “Dio c’è”».

m.v.

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