Domenico Quirico: il ritorno dalla terra del male

Govone ha riabbracciato, mercoledì 18 settembre, Domenico Quirico, il giornalista della Stampa rapito in Siria dai ribelli e rilasciato dopo 152 giorni di prigionia. Cinque mesi di sevizie e privazioni che il giornalista racconta a Gazzetta, settimanale che conosce e che legge insieme alla moglie Giulietta. Un viaggio nella disperazione, tra continue umiliazioni, ma un viaggio carico di speranza e di fede, da rivivere e con cui convivere, perché, come sostiene Quirico: «Raccontare quell’orrore potrà portarmi un giorno, se non a perdonare i miei aguzzini, perlomeno ad accettare e a non odiare, ho visto troppo odio in questi mesi, ho vissuto veramente nella terra del male».

Domenico Quirico

Govone ha vissuto con il fiato sospeso i mesi della sua prigionia esplodendo di gioia alla notizia della sua liberazione, cosa vuol dire ai suoi compaesani che tanto l’hanno attesa?

«L’affetto con cui sono stato accolto al mio ritorno è stato qualcosa di commovente. Nonostante l’ora tarda c’era tanta gente ad aspettarmi davanti a casa. È stata un’enorme sorpresa, perché a Govone, purtroppo, sono stato poco, tenendo conto dei sei anni vissuti come corrispondente da Parigi e dei molti viaggi nei territori di guerra che mi hanno tenuto spesso lontano da casa. Mia moglie mi ha raccontato dei fiocchi gialli comparsi su tutte le porte di casa dei govonesi, delle foto affisse ai vetri e molto altro, questo perché io vivo nel loro paese. È una storia molto italiana e bellissima, una piccola comunità che adotta una persona, la sente vicina, vive il dolore della sua famiglia e regala una solidarietà straordinaria. Questo affetto non potrò mai dimenticarlo».

Perché ha scelto Govone per stabilirsi?

«Mio padre cercava una casa lontana dalla città, perché in famiglia abbiamo sempre avuto la passione per i cavalli con cui qui è possibile fare bellissime passeggiate. All’inizio venivamo solo in estate, stabilirsi qui definitivamente è stata una decisione di mia moglie e delle mie figlie che hanno sempre amato questo luogo. Ora la mia casa è questa, quando ritorno non riuscirei a immaginare un posto diverso. È la nostra identità. Il nostro nido. La cosa che ho più desiderato quando ero in Siria era rivedere questo orizzonte, vedere il Tanaro, le mie colline e tornare a passeggiare verso San Damiano o verso Priocca.Questo pensiero, questo desiderio mi ha permesso di sopravvivere alla mia discesa agli inferi».

Un inferno cominciato l’8 di aprile.

«Quel giorno ad al Qusayr, appena attraversato il confine, eravamo lì (con lo storico belga Pierre Piccinin, ndr) per raccontare la guerra siriana, dalla parte dei ribelli, quegli stessi che prima si sono finti amici e subito ci hanno tradito sequestrandoci. La primavera araba mi esaltava, mi ha sedotto e poi mi ha deluso: è iniziata come una grande rivoluzione di giovani idealisti, ma ormai è solamente fanatismo. Un fanatismo in cui Al Qaeda prospera e ha trovato terreno fertile per i propri biechi interessi, fomentando l’odio verso l’Occidente. Un odio che abbiamo sentito sulla nostra pelle nei 152 giorni di prigionia, in piccole camere buie dove combattere contro il tempo, il caldo, la paura e le umiliazioni. Le fughe sotto le bombe dell’esercito siriano. E poi la fame, due false esecuzioni, due evasioni fallite e il timore di non riabbracciare mai più le nostre famiglie».

Perché ha definito la Siria il Paese del male? «

La mia esperienza è stata questa, sono stato in numerose zone di guerra: dal Rwanda alla Libia, dalla Somalia all’Algeria, ho visto fatti di una crudeltà inenarrabile, ma ovunque ho trovato della pietà negli uomini, in Siria no, nonostante io fossi un amico della rivoluzione ».

Che cosa intende per assenza di pietà?

«Intendo la pietà come la concepiamo noi cristiani: compassione verso un individuo più debole, verso un prigioniero in catene, nel mio caso. Per i miei carcerieri ero solamente un simbolo dell’Occidente, un infedele che non trova la pietà nemmeno nei bambini o negli anziani. Nella mia vita non avevo mai provato cosa fosse l’umiliazione quotidiana nelle cose semplici come il non poter andare alla toilette, il dover mangiare i resti, il dover chiedere tutto e ricevere continuamente rifiuti».

Cosa le ha permesso di sopravvivere a questi 152 giorni di prigionia?

«Il pensiero di rivedere casa, l’amicizia. Se fossi stato da solo sarei impazzito, mi hanno aiutato i libri e mi ha aiutato la fede in Dio, in questi interminabili cinque mesi ho capito che Dio non abbandona mai i propri figli e che quando lo si pensa assente, è proprio allora che Lui è più vicino. Questo penso sia il segreto del credere, penso risieda nella pazienza che fu di Giobbe, Dio non è il 118 della propria disperazione, da chiamare quando si ha bisogno. Il mio compagno, dopo alcuni mesi di prigionia, ha iniziato a rifiutare Dio perché Dio non gli dava quello che aveva chiesto, io come Giobbe pensavo che Dio mi stesse togliendo tutto per poi darmi molto più di quello che avevo perso, e in fondo è andata così. Questa convinzione mi ha permesso di superare i momenti più difficili».

Perché ha scelto di fare il cronista dalle zone più calde del mondo?

«Io penso che il mestiere del giornalista possa avere un grande valore, anche etico, solo quando racconta la realtà, la mia non è una ricerca della guerra, è una ricerca del dolore, nelle zone in cui è più forte la sua presenza.

E il dolore non lo si può raccontare ascoltandolo al telefono o via Internet, bisogna viverlo ». Quale pensa sia il futuro della Siria?

«Temo che sia un futuro grigio, c’è un tale spessore dell’odio che va al di là della religione, delle etnie, un odio che nasce fin dalla tenera età e che incita ad ammazzare. È molto difficile che possa nascere una coesistenza. L’Occidente in questo ha grandi colpe, bisognava intervenire prima, all’inizio della rivoluzione, non con un intervento militare, ma aiutando i rivoluzionari, perché questa rivoluzione ci assomigliava. A spingere i giovani era la voglia di progresso e di libertà, invece per viltà, per poca lungimiranza abbiamo fatto finta di niente. Oggi l’islamismo è trionfante e aiutare la rivoluzione vorrebbe dire aiutare Al Qaeda».

Pensa che ritornerà mai in Siria?

«Non lo so, ma non credo, in questi mesi ho potuto riflettere e capire anche la vanità e l’egoismo che si celano dietro la scelta di vivere in prima linea il giornalismo. Io non sono da solo, ad attendermi avevo una moglie e due figlie, i veri ostaggi di tutta questa vicenda, perché io mi sapevo vivo, loro no. Ho avuto la misura del dolore con cui hanno convissuto per mesi guardando il viso di mia moglie al ritorno. È un dolore troppo grande che non voglio mai più causare alle persone che amo. Forse è giunto il momento di fermarsi, di curare il giardino della nostra villa, di passeggiare a cavallo e di perdersi in quest’orizzonte carico di amore e di affetti sinceri che tanto mi è mancato nei mesi di prigionia».

Marcello Pasquero

«La fede che insegna ad amare»

«Il mio cattolicesimo è il cattolicesimo di quando ero bambino, fatto di preghiere e insegnamenti che nasce dal frequentare le piccole parrocchie di campagna.Unafede che insegna ad amare, prima di tutto il prossimo e non a chiedere. La Chiesa che conosco è quella del curato che, magari, non aveva studiato teologia e che alla domenica faceva considerazioni molto semplici, ma estremamente vere durante la predica. Il cristianesimo che piace a me è quello del Nuovo Testamento che nasce con san Paolo e che sublima l’idea del Vecchio Testamento e dell’“Ama il prossimo tuo” come te stesso: a mio parere l’insegnamento più bello e nobile che abbia lasciato all’uomo Dio. Un insegnamento agli antipodi del credo dei miei sequestratori, che pregavano il loro Dio stando accanto a me, senza pietà, e al loro Dio chiedevano lo sterminio dei nemici e la vittoria nella guerra. La mia fede è amore, è donarsi, la loro era solo rito fine a se stesso, perché nessun Dio potrebbe mai approvare ciò che succede in Siria».

m.p.

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