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La storia di Martin ha tanto da insegnare a tutti

don rizzolo antonio_qEgregio direttore, ho letto sul numero del 23 dicembre di Gazzetta la storia di Martin Sombela, storia solo apparentemente triste perché lo stesso Martin si proclama felice della sua vita nonostante la disabilità. La lezione importante che ci dà è che non soltanto quella che noi chiamiamo normalità della maggioranza assicura una vita di serie A.
Mi piace far conoscere ai lettori di Gazzetta il lavoro intellettuale di Martin, la sua tesina sulla musica: “Nella musica nessuno è disabile”. Ma che bella sorpresa la tesi di Martin alla fine del suo percorso di studi. Questo ragazzo che la vita ha voluto diverso dalla maggioranza, ma la cui voglia di vivere sopravanza quella della maggioranza. Martin parte subito all’attacco e usa la musica come lo strumento meraviglioso che annulla la sua disabilità. E poi via con una breve escursione di storia della musica, tra citazioni di dotti filosofi e grandi musicisti. Ci sono belle foto e parole commoventi nel lavoro di Martin. Ci sono dolori e la voglia di lasciarsi alle spalle i dolori. C’è voglia di vivere che si scarica sui piatti e sui tamburi. La storia di Martin ha tanto da insegnarci. Sicuramente da insegnarmi. Grazie Martin. Sei grande!
 Tilde e la sua band
 Martin Sombela è un ragazzo di 19 anni, di origine africana, affidato fin da piccolissimo a una famiglia albese. È costretto in carrozzella per un errore dei medici durante il parto. Ma ora giudica questo “intoppo” un privilegio, perché è stato affidato a una famiglia italiana e ha scoperto la propria forza. Davvero la storia di Martin ha tanto da insegnarci. Prima di tutto perché è una storia d’amore: dopo la morte della madre, Martin è stato accolto in una nuova famiglia, quella di Monica e Francesco, ed è stato il primo di tanti figli, quattro naturali e tanti altri in affido: una bella famiglia allargata e multiculturale. È anche una storia che ci invita a riflettere sulla disabilità. Noi guardiamo spesso a quello che ci manca, ai limiti, ai problemi. Ma ci dimentichiamo di quello che abbiamo, delle possibilità aperte, della nostra forza. Ho conosciuto l’estate scorsa Simona Atzori, ballerina, pittrice, scrittrice, nata senza braccia. Nel libro in cui racconta la sua vita, Cosa ti manca per essere felice?, si chiede perché ci identifichiamo sempre con quello che non abbiamo, invece di guardare quello che c’è: non ci manca niente per essere felici. Come Martin, che dice che la sua vita ora «va bene, anche troppo! Sono felice». Come Simona, che scrive: «Sono felice, smodatamente, spudoratamente felice. Ed è una gioia raccontarla, questa mia felicità. Il mio punto debole è che, dopo aver tanto ballato, dipinto e parlato, mi sento come svuotata. Mi sento fragile, esposta. […] Quando viene quel momento, mi inchino. Mi inchino profondamente, a ringraziare quanti mi hanno dedicato tempo e cuore. Sento i capelli scivolare lungo la schiena e arrivare a terra, il respiro farsi più regolare, e vedo i miei piedi. Allora comincio a immaginare un nuovo sogno».

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