L’Aquila sempre ingoiata in un cantiere eterno

IL REPORTAGE Un rumore come di frana, o – nel linguaggio delle emozioni – d’imprevisto. Sono cocci e frammenti d’intonaco e cemento che scendono da lunghi corridoi di plastica, tubi montati ai piani superiori per raggiungere l’esterno delle abitazioni. Un rumore costante, disturbante. Pezzi di muro che vengono spostati fuori i palazzi. Il 19 e 20 marzo Gazzetta realizza un reportage all’Aquila per descrivere le emozioni che sette anni dopo abitano il teatro del terremoto del 2009. Tentiamo di fotografare immagini, suoni, colori.

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Attorno, muratori, perlopiù stranieri. Un paese di muratori. «Io non so nulla, noi veniamo qua, facciamo il nostro turno e ce ne andiamo», dice sbrigativo un macedone di 55 anni. «Sono due anni che lavoro qui. La ristrutturazione va a rilento, perché le parti interne degli edifici sono in condizioni disastrose. Ma la paga è buona, non facciamo troppe domande».
La sensazione all’Aquila è di un cantiere eterno, dove ogni cosa viene ricostruita con dantesca condanna, tutto ricomincia sempre da capo, senza risultato.
Il centro della città è scenario cinematografico: un cimitero di gru che svettano, marmo e pietra bianca ovunque, edifici puntellati, negozi chiusi da sette anni, tabaccai con le insegne impolverate.
Un negoziante – uno dei pochi aperti – che vende panini risponde al nostro chiedere: «Non so dove sia il luogo che cercate, dopo il terremoto la gente ha problemi pure col navigatore e alcune vie sono soltanto nomi, nessuno li utilizza più come vero e proprio punto di riferimento».
È come se il sisma fosse avvenuto pochi mesi fa. Non solo per l’estetica della città: il sostantivo terremoto appare in ogni conversazione. Davanti alla scuola media Carducci vediamo il cancello chiuso a lucchetto: dentro le vetrate banchi, fogli, sedie accatastati come carogne in un cimitero dimenticato, elefanti scheletriti a testa all’aria.
Un passante ci guarda, dice: «Fate foto. La gente deve sapere che qui il tempo è come se non fosse trascorso».
Sebbene tutti chiedano di comparire in modo anonimo, come stanchi di un giornalismo ingordo e invadente, raccogliamo opinioni. Gli aquilani sembrano uniti nel giudicare la questione.
«Oggi le case realizzate dal Governo per gli sfollati si ergono in periferia, molta gente vi abita ancora», spiega il gestore di un bed and breakfast a Coppito, nelle immediate vicinanze della città. «Anche mio fratello. Non stanno male. Le abitazioni sono piccole, ma hanno molte meno spese rispetto a noi, sono meglio riscaldati».
Aggiunge uno dei sedici tassisti della città: «Oggi gli edifici d’arte non sono ripristinati e forse impiegheranno molto tempo ancora. Parecchia gente se n’è andata. Siamo rimasti pochi ma tentiamo di fare del nostro meglio per riportare l’Aquila a splendere».
Il tassista ci guida di fronte alla Casa dello studente, dormitorio crollato che causò la morte di otto ragazzi e il ferimento di 19. Magliette appese alle grate, fotografie. Come fosse ieri. I balconi ancora screpolati, traumi nell’intonaco come cicatrici che ricordano gli errori commessi e le omissioni.
Conclude un professore universitario della Facoltà di medicina, nell’ospedale San Salvatore: «L’Aquila ora è sicura, ma vi consiglio di portarvi sempre una lucina automatica, di quelle che quando scendi dal letto si accendono. Durante il terremoto molte ferite vennero causate dall’assenza di luce, dallo sbattere delle persone contro oggetti delle stanze».
Ancora ansia, paura latente, una ferita aperta. L’indignazione per i ritardi, le infiltrazioni mafiose, la furia della protesta pare si siano nel tempo attenuate per lasciare spazio all’impossibilità d’incidere, alla rassegnazione.
Matteo Viberti

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