Gianmaria Testa: Da questa parte del mare, il libro

ALBA Un racconto e una riflessione attorno alle canzoni del disco
In una prefazione che è una lettera di saluto fraterno – e che oggi leggiamo come una intensa ricapitolazione – Erri De Luca ringrazia Gianmaria Testa per averlo voluto «accomunare al libro della vita». L’immagine è spaziosa, e contiene in sé anche il libro che si intitola Da questa parte del mare, come il disco celebrato e premiato del 2006 – ristampato su vinile per Fuorivia. Il 19 aprile è uscito, a neppure un mese dalla morte del cantautore, per Einaudi, nella collana Arcipelago dove Testa è in compagnia dello stesso De Luca, di Mario Cavatore e dell’amato Fenoglio (un Fenoglio, per coincidenza, “marinaro”). Si era letto del libro, della sua imminente pubblicazione, sullo sfondo dei necrologi; e probabilmente potrà spingere a pensare, d’istinto, a parole come commiato o testamento.

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È un autoritratto obliquo, o meglio – è De Luca a parlare – «una multibiografia di persone e di luoghi, dove sei anche tu». In un centinaio di pagine senza inutili eccipienti o stiracchiature, Gianmaria Testa ha costruito un racconto e una riflessione proprio attorno alle canzoni di Da questa parte del mare. L’ascolto trasmette un moto di empatia verso i migranti della nostra attualità (e di ogni tempo), restituendo loro quella dimensione individuale, umana, negata dalle cifre della cronaca giornaliera e dai fautori di muri e respingimenti; la lettura del libro rivela, complementare, ciò che dà origine all’empatia delle canzoni: sono gli incontri e le storie assorbite da Gianmaria Testa, le sue reazioni di persona nata «dalla cosiddetta parte giusta del mondo», e insieme la sua storia di figlio di contadini del Cuneese che ha «fatto in tempo, da bambino, a imparare la semina del grano a mano».

La «multibiografia», comprende così, in una comunità allargata, il rital di Marsiglia Jean-Claude Izzo, l’operaio africano Tinochika detto Tino, il ragazzo albanese stipato di notte su un gommone e Rock, il violinista di Scutari che non c’è stato il tempo di conoscere davvero… e pagine molto belle sulla cascina di Madonna del pilone dov’era nato, sulla coscienza di essere «di campagna» («a noi di campagna ci dovevano cercare»), sul mondo dei suoi genitori che è stato anche il suo (uno dei suoi). Cose accennate, a tratti, per introdurre un brano dal vivo; ma mai così esplicitate e organizzate, perché il concerto è il campo delle canzoni. La concentrazione, il sottintendere e lasciare implicito, sono segni stilistici; e in queste pagine ci sono passaggi che rivelano un metodo, una poetica: «…cerco di pensare con il massimo della semplicità possibile, sfrondando da ogni retropensiero, da ogni preconcetto, le ragioni primarie del mio scrivere»; e meglio ancora, il compendio istantaneo di un’educazione, di un modo di essere e di agire esemplato dalla madre, su cui si chiude il libro: «È proprio di questo che c’è bisogno: di poche parole e di una porta sempre aperta».

Edoardo Borra

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