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Enrico Crippa, tre stelle di dedizione e cura in cucina

Il Piazza Duomo al 17° posto tra i migliori ristoranti del Mondo
Enrico Crippa

INTERVISTA
È un uomo pratico, Enrico Crippa. L’accento e lo spirito brianzolo – è nato a Carate Brianza nel 1971 – si uniscono a un’allure tipica delle Langhe. Non parla tanto di filosofia culinaria, piuttosto di qualità vegetali, cura maniacale per gli ingredienti, dedizione al lavoro e capacità di gestire la pressione, imprimendo la sua firma in ogni fase del processo creativo.
L’energia è il motore delle sue giornate: «Mi piacciono le persone performanti. Voglio sentire l’adrenalina, a partire da una semplice stretta di mano», afferma con gli occhi vispi, il pizzetto perfetto e la divisa inamidata. I suoi traguardi, li conosciamo bene, da quando nel 2005 arrivò ad Alba come chef del ristorante Piazza Duomo, di proprietà della famiglia Ceretto. Ha scalato l’olimpo della cucina, con tre stelle Michelin e il diciassettesimo posto nella classifica World’s 50 best restaurants, edizione 2016, con un balzo in avanti di ben 10 posizioni rispetto all’anno precedente.

Lo abbiamo incontrato nel suo regno, con gli affreschi di Francesco Clemente sulle pareti rosa e il Duomo alle spalle. Enrico Crippa, che periodo è quello invernale per la sua cucina?
«La mia è una cucina che segue le stagioni. In inverno, si avvicina a quella tradizionale piemontese, con piatti che si prestano bene al periodo freddo, come il brasato, i bolliti o gli agnolotti di fonduta. La cucina invernale è molto più colorata di quella estiva: possiamo giocare con barbabietole rosse, rape bianche, cavolo nero, topinambour».
Attenzione per le materie prime, a partire dall’orto.
«Esatto. Abbiamo due ettari e mezzo di orto e una serra fissa, raffreddata o riscaldata a seconda delle stagioni. Il nostro metodo di coltivazione è basato sui principi della biodinamica, via via più consolidata. In passato, ad ogni stagione dovevamo cambiare il menu, affiancando a un elemento proteico – carne o pesce – le verdure disponibili, oggi accade l’opposto: è l’orto il protagonista».
Quanta ricerca c’è alle spalle di ogni piatto?
«Parlerei di lavoro. Ogni giorno impieghiamo molto tempo nella selezione, nella cura e nella pulizia delle materie prime. Per esempio, la nostra insalata richiede il lavoro di quattro persone, per pulire i germogli e presentarli. Ci sono piatti che nascono con pochissime ore di progettazione, mentre altri richiedono più studio e sperimentazione. Altre volte ancora si prova un accostamento per giorni e giorni, per poi mollare tutto e ritrovare l’idea geniale mesi dopo».

Una creatività pratica?
«La mia cucina è complessa, ma le idee si chiariscono durante la degustazione. La nostra ambizione è la praticità: proporre piatti leggibili, che non necessitano di istruzioni per essere assaporati e compresi. Tutti devono poter godere del momento, anche chi non è particolarmente appassionato e cerca un’esperienza di svago nella cucina di un territorio ricco come il nostro. Non bisogna essere troppo cervellotici».
Esiste un equilibrio tra tradizione e innovazione nella cucina di Piazza Duomo? In altre parole, le piace rompere gli schemi?
«Viviamo in un territorio ricco di tutto, sarebbe un controsenso mettere da parte le meraviglia che abbiamo a disposizione. Allo stesso tempo, sarebbe noioso proporre sempre gli stessi piatti, in modo identico. L’equilibrio perfetto è tra tre dimensioni: ciò che la gente si aspetta quando viene nelle Langhe, l’esigenza di innovare e la firma di chi cucina, sperimentando giorno dopo giorno. Non potrei mai proporre sushi a un americano che viene in visita ad Alba, meglio una tinca in carpione».
Quanto è importante la cura estetica nel suo modo di lavorare?
«La coreografia di un piatto è fondamentale, quanto la scelta dell’ingrediente. Nella mia cucina, il bello è buono: mangiare con gli occhi è indispensabile. Ogni chef dovrebbe riuscire a trovare un proprio stile di bellezza, immediatamente riconoscibile. Come nell’arte, dove un’opera di Van Gogh si distingue da un Picasso o da un Monet. Piuttosto, se non si è in grado di presentare i piatti con un proprio stile personale, meglio concentrarsi sul gusto».
Si è stupito quando le hanno chiesto di essere il “pittore” del drappo del palio 2016?
«Per quanto mi riguarda, è stata una bella iniziativa. Qualcuno non è stato d’accordo, ma credo sia stato un gesto apprezzabile in una città come Alba, dove regna l’enogastronomia. Il piatto finale, scelto tra diverse possibilità, rappresentava il territorio e al contempo la corsa degli asini: uno sfondo nero, riconducibile al pavé di piazza Duomo, colorato con colpi di crema di nocciola, polveri colorate di lampone, tè verde, cacao, zucchero caramellato, yogurt, per ricreare i colori delle vigne dopo la vendemmia. La coreografia, in più, ricordava qualcosa di circolare, come il palio».

Ha un approccio critico, quando assaggia i piatti dei suoi colleghi?
«Nelle Langhe è difficile mangiare male, si possono vivere ottime esperienze dalla piccola trattoria famigliare al ristorante stellato. Quando esco mi piace sentire il calore umano e la condivisione del momento, più che il dettaglio del piatto, sul quale magari potrei dissentire».

Che cosa non tollera in cucina, tra i suoi collaboratori?
«L’indifferenza al rimprovero. Le nuove generazioni – ho l’impressione di essere mio padre o mio nonno – spesso non reagiscono di fronte a un errore nel modo giusto. Dal momento che la responsabilità di ciò che accade in cucina è solo mia, se rimprovero qualcuno pretendo una reazione e una presa di coscienza: più errori fai, più diventi bravo».

Ci sveli i segreti del suo successo, per essere arrivato fino qui.
La dedizione al lavoro, prima di tutto. Un bravo chef vive per il cliente, con l’obiettivo di fargli vivere un’esperienza superiore ad ogni aspettativa iniziale. Inoltre ho sempre cercato di avere un comportamento esemplare di fronte al mio staff: se loro lavorano 12 ore, io ne voglio fare 14. E poi una certa dinamicità e immediatezza nel risolvere i problemi che si presentano ogni giorno. La cucina è come una missione, una vocazione, dove toglierai qualcosa a te stesso, per darlo al cliente».

Le fanno paura le critiche?
«Partiamo dal presupposto che il cuoco, se lavora a pranzo e a cena, viene sottoposto ogni giorno a esame, due volte al giorno. Le critiche spaventano, ma sono normali, soprattutto ai livelli che ho raggiunto. Si dice sempre che la cucina della mamma è la migliore del mondo, ma lei conosce benissimo i piatti preferiti del figlio e non gli proporrebbe mai nulla di diverso. Il cuoco, al contrario, lavora al 90% dei casi con persone mai viste: come accontentarli tutti? La fortuna, nel nostro caso, è che la maggior parte delle critiche a Piazza Duomo, riguardano aspetti diversi dalla cucina, come il colore della sala o la scala d’ingresso».

Nel periodo in i cuochi sono personaggi televisivi, la vedremo mai a Masterchef?
«In questo momento, non mi interessa. L’attenzione mediatica è buona, perché prima non eravamo troppo considerati. Forse ora è diventata troppa, soprattutto perché si rischiano di far passare messaggi errati. Mi capita di vedere concorrenti che, mentre cucinano, dichiarano di non riuscire a rendere al meglio la loro potenzialità, a causa dell’eccessiva pressione. Come è possibile? Il momento in cui un cuoco cucina, è quello in cui si rilassa, tra la confusione generale dello staff e dei fornitori, con i loro problemi professionali e personali. Se non riesce a reggere il ritmo, meglio cambiare mestiere».

Chiudiamo il cerchio, perché Enrico Crippa si è appassionato di cucina?
«Tutto parte dalla mia infanzia. I miei genitori erano custodi di un’azienda in Brianza e, per ragioni lavorative, non potevamo fare le vacanze tutti insieme, così venivo mandato dai miei nonni paterni. Mio nonno, il mio mito, amava cucinare. Eravamo soliti girare per mercati, alla ricerca dei prodotti, per poi tornare a casa, disporre tutto sul tavolo e manipolare gli ingredienti, fino ad arrivare al piatto finito. Io lo guardavo, seduto di fronte a lui. In quelle giornate, deve essere scattato qualcosa dentro di me».
Francesca Pinaffo

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