INTERVISTA È nato a Roma ma vive in Medioriente dal 1998: prima a Damasco, poi in Giordania e in Libano. È proprio dalla capitale Beirut che Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa per il Medioriente, giornalista, collaboratore di Limes, nonché autore di due saggi dal titolo Siria. Dagli Ottomani agli Asad. E oltre e Siria. Nel nuovo Medioriente, ha risposto alle domande di Gazzetta via Skype: un’anteprima sui temi dell’incontro pubblico intitolato “Siria: oltre l’inferno, i muri e le paure”, organizzato dalla lista civica Alba città per vivere, in programma per venerdì 28 aprile alle 21 nella sala Riolfo.
È possibile provare a chiarire la situazione in Siria?
«L’attuale guerra in Siria ha oggi una forte dimensione regionale e internazionale. La guerra nel 2011 nasce come repressione governativa alle sollevazioni di alcuni settori della popolazione che hanno cominciato a scendere in strada in maniera più o meno pacifica. Il movimento della primavera del 2011 era in genere inedito e non violento ma in un contesto con una forte tensione politica e confessionale anche il conflitto fra sunniti e sciiti ha assunto maggiore rilevanza, mentre, dove la marginalizzazione sociale è meno evidente, vanno anche molto d’accordo».
Che cos’è successo dopo?
«Nel 2011 il movimento di protesta è stato immediatamente represso dal regime autoritario che dura da decenni; nel 2012-13 il conflitto si è regionalizzato e radicalizzato in tutti i sensi: tutte le componenti si sono impaurite, armate e radicalizzate: quelli che ci fanno più paura sono i sunniti, ma qui siamo circondati da radicali di ogni tipo».
Quale l’andamento della guerra?
«Sono in corso due guerre, una al cosiddetto Stato islamico, lungo l’Eufrate; un’altra tra oppositori e governativi, che si combatte a occidente. Questa seconda è stata quasi vinta da Russia, Iran e Governo che hanno sconfitto l’asse delle opposizioni, militarmente, non per un accordo mediato dall’Onu. Anche sull’altro fronte lo Stato islamico è destinato a essere sconfitto militarmente, in tempi più lunghi. Imperversa da giorni una battaglia a ovest di Raqqah, lungo l’Eufrate, dove combattono i curdi, usati come manovalanza per fare il lavoro sporco da Russia e Stati Uniti; del resto loro non lo fanno gratis e si stanno espandendo in zone non curde. I curdi sono i grandi vincitori della situazione: incaricati di fare la guerra ai jihadisti mentre loro, descritti come i buoni, prendono territori pieni di petrolio e gas che non lasceranno dopo la fine della guerra».
Con quali conseguenze per la regione?
«Probabilmente nel 2018 l’Isis dovrà retrocedere e si arroccherà a Deir el-Zor. La sconfitta militare non coinciderà con la sconfitta culturale dello jihadismo se non ne affrontiamo le radici. Stiamo curando il cancro con l’aspirina, se a chi ha trovato la risposta nelle armi non si danno prospettive e terre da coltivare. La siccità e il malgoverno hanno costretto le persone a migrare intorno alle città, impoverendo il tessuto sociale: c’è un forte spaesamento e la necessità di trovare un centro, delle certezze. Non è come in Europa, qui la famiglia allargata è ancora il fulcro della società e se questa si sfalda, in un contesto di violenza diretta e indiretta con l’estremismo dietro la porta, se non pensiamo a soluzioni alternative troveremo dopo qualcosa di peggio».
Paese diviso tra estremismo islamico e influenze straniere
Trombetta, qual è il contesto oggi?
«Al Nord-Nordest c’è una zona a maggioranza curda, sostenuta da Usa e Russia, dominata dall’ala siriana del Pkk, considerato terrorista dalla Turchia.
Nella striscia di confine con la Turchia, a Nord, c’è un cuscinetto a influenza turca.
Scendendo a Est, verso l’Eufrate, c’è la zona controllata dall’Isis. È vero che è un’entità transnazionale ed è vista come riferimento per gli attentati rivendicati in Occidente, ma in Siria e Iraq c’è una forte componente locale. L’Isis si presenta come insurrezione di gente che ha preso le armi usando argomenti legati all’islam per rivendicare maggiori diritti; lo Stato islamico qui ha dovuto imporre la sua autorità con la forza ma anche, all’inizio, imponendo l’ordine e la stabilità che con la guerra in Siria non c’erano più.
Quella che dai Romani era chiamata la Siria utile, perché fertile, che va da Aleppo all’estremo Nord fino ad Hamat è dominata dal Governo sostenuto da Russia e Iran, storicamente alleati.
Infine le cosiddette opposizioni armate: gruppi che si contendono potere a livello locale, estremisti di varia natura stanno raccogliendo quello che rimane».
Informarsi e aiutare chi è sul territorio
Trombetta, cosa fare per sentirci meno impotenti di fronte al dramma della Siria?
«Abbiamo la possibilità di fare pressione sui nostri decisori politici, per una maggiore informazione e chiarezza sulle cause di questo male; spesso i politici ripetono qualcosa tipo “ammazziamoli tutti” con le armi oppure “espulsioni forzate” pensando che cacciando qualche egiziano si possa risolvere il problema. Oltre a conoscere meglio la storia, a partire dalle scuole, possiamo sostenere chi opera sul territorio; sono consulente di una Ong europea con base a Beirut che gestisce progetti di sostegno alle popolazioni in Siria, i risultati sul terreno ci sono. È utile sostenere il lavoro di chi fa sì che i vari attori resistano alle armi, alle mafie, alle corruzioni, all’oscurantismo».
a.r.