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Carvè, ovvero il mondo piemontese di Oscar Barile e Paolo Tibaldi

Carvè, ovvero il mondo piemontese di Oscar Barile e Paolo Tibaldi

RECENSIONE Il 28 luglio Benevello ospita una replica con Barile e Tibaldi
«Che cos’è il piemontese?». In risposta a questa domanda scorre, fuori campo, una sequenza registrata di voci femminili, nonne madri figlie: una schiera di voci, affettuose e orgogliose, che credono, ringraziano e usano parole come resistenza, valori, casa. Intanto in scena, su un fondale giallo, si scrivono alcune parole chiave, come appunti su cui, man mano, si tornerà.

Si può dire che sia, questa, la “sigla” che apre Carvé, l’atto unico scritto da Oscar Barile su invito di Paolo Tibaldi (prossima replica il 28 luglio a Benevello, ore 21, le altre cliccando qui ): una variazione contemporanea e non scontata sul tema (pirandelliano, universale) della maschera, sulla sua “necessità”, su verità, menzogne, apparenza, identità e compromessi che quotidianamente indossiamo, tra cui dobbiamo farci largo. Non dunque un richiamo al carnevale in senso stretto, ma alla «mascaràda continua» della vita: che viene amaramente smascherata dalla divertita intelligenza del vecchio detto: «Sossì o r’è pròpi ’n carvé!». In scena, pochi accurati elementi scenografici, e due personaggi: l’architetto Davide (Tibaldi), che ha preso 110 e lode con una tesi sulle cascine di Langa «scritta col cuore», in un dialogo ininterrotto, reale e interiore, in dialetto, con suo nonno Filippo (Barile), contadino che nella sua «cassin-òta» l’ha educato, da bambino, alla conoscenza e al rispetto della terra. In realtà, i personaggi evocati sono ben di più, perché in un’ora e mezza rapidissima trascorrono decenni, cambiano situazioni e ambientazioni, e aumentano le maschere variopinte simbolicamente appese alla parete, come una collezione di trofei, ma di sconfitta.

L’accuratezza del dettaglio non è decorativa: una maschera tutta bianca, ancora “da scrivere”, è la prima che vediamo portare; una camicia per metà bianca e per metà nera è un espediente tanto semplice quanto efficace per accompagnare la storia di un cuore ingannato; fino all’ultima sorprendente maschera indossata, che non si può anticipare a chi non l’abbia vista, e che Paolo Tibaldi, dosando voce, gesti, postura, rende credibile, schivando senza incertezze il pericolo della caricatura e servendo un toccante monologo sulla vita come illusoria festa mobile. L’unica cosa che sembra dimostrare fedeltà e pazienza, è proprio la Langa: «Le colline sono sempre loro: per quanto ci abbiamo provato, non siamo riusciti a rovinarle», conclude Davide.

Ci si commuove, in Carvé; ci si riconosce, almeno un poco, individualmente («la “mascaràda” non riesci a levartela di dosso neppure quando sei solo») e in prospettiva generazionale («Corriamo… ma per andare dove?»); e si ride, anche, in molti modi: prevalente la satira, sana e secca, nei commenti di nonno Filippo, che usa le figure infallibili dei modi di dire dialettali. Già, il dialetto: quello che ad almeno una generazione, figlia del boom economico, era stato prescritto di non parlare, di non sentir parlare. Filippo ha contravvenuto e il piemontese è la lingua comune, naturale, tra nonno e nipote: memorabili i cinque minuti filati in cui Barile e Tibaldi, in un duetto che è una gara e una scheggia di musical, accumulano in crescendo una miriade di «conte», di filastrocche infantili e irriverenti, in un numero che sarebbe piaciuto a Paolo Poli.

Torniamo alla domanda di partenza: che cos’è il piemontese? In Carvé, la risposta dà il senso a uno spettacolo che non è affatto nostalgico, ripiegato su un passato perduto: il dialetto è la lingua immediata delle cose, la prima nominazione del mondo, dunque è il mondo, la sua verità; le maschere arriveranno dopo.

Il finale, una visione in cui la cascina del nonno diventa un altro “posto delle fragole”, è allora un invito a non consegnare all’oblio, o al più stucchevole rimpianto, quella verità; piuttosto, al di fuori del tempo, a recuperarne la forza, sentimentale e morale.

Edoardo Borra

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