Uno su due non vuole che i bimbi nati da genitori stranieri diventino cittadini italiani

Uno su due non accetta che i bimbi stranieri diventino cittadini italiani

Il timore del diverso coinvolge la metà degli intervistati sul tema legato al riconoscimento dello ius soli per i figli degli immigrati

IL SONDAGGIO La questione dello ius soli sembra nascondere elementi ben più profondi della norma, rievocando non la sola accettazione del diverso, ma il nostro rapporto con elementi stranieri, lontani, inconoscibili. Gazzetta d’Alba ha tentato questa volta, con una delle sue inchieste, di comprendere i venti che attraversano la comunità su una delle questioni forti del dibattito odierno: il diritto per i bambini nati nel nostro Paese da genitori stranieri di diventare italiani senza attendere il diciottesimo anno di età.

Al nostro questionario on-line hanno risposto quasi 200 lettori, un campione significativo dal punto di vista statistico, considerando l’intera popolazione albese.

I risultati sono, in generale, polarizzati su una linea di equilibrio: 49 per cento “sì”, 51 per cento “no”. Ma, in particolare, alla domanda: «Pensi che un bambino nato in Italia da genitori stranieri abbia diritto alla cittadinanza?», gli intervistati tentennano e si dividono in un manicheo “bianco e nero”, che fa però prevalere il “no” al 51,4%.

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Per comprendere la risposta proseguiamo nell’analisi: secondo un intervistato circa su 4, il parametro che maggiormente definisce l’appartenenza di una persona dal punto di vista della cittadinanza è «l’apprendimento culturale», ovvero l’ambiente sociale e formativo in cui l’individuo è immerso. Secondo il 17 per cento il concetto coincide con «l’identità che una persona percepisce di sé stessa». Il 40 per cento sceglie invece un misto delle due precedenti impostazioni, in aggiunta a «consanguineità con un italiano», «formazione scolastica», «lingua e provenienza geografica».

LO STRANIERO

Altra divisione perfetta la individuiamo nella risposta alla domanda: «Solo ad Alba negli ultimi 4 anni oltre 450 immigrati sono diventati italiani. Ti fa paura questo cambiamento sociale?». Gli intervistati si dividono in una metà che risponde «zero», l’altra che scrive «dieci».

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Una sorta di polarizzazione delle opinioni, che ritorna alla domanda: «Che cosa prova un bambino nato e cresciuto in Italia, ma che fino al diciottesimo anno di età (in assenza di ius soli) non può dirsi italiano?».

La maggioranza degli intervistati risponde: «Indifferenza». Il 40 per cento restante si divide invece tra le opzioni della rabbia, della paura e della perplessità.

Infine, per chi ha risposto al nostro sondaggio, la questione ius soli corrisponde a una «esagerazione mediatica» (lo dice il 40 per cento del campione) oppure a una generalizzata, diffusa e pervasiva paura del cambiamento (secondo il 22 per cento).

L’INVASIONE

Da una parte c’è chi è capace di empatizzare con i bambini che «si sentono italiani» ma non vengono riconosciuti come tali dallo Stato, dall’altra c’è chi manifesta netta ostilità. «In caso di approvazione dello ius soli, quei bambini rimarrebbero italiani di carta, stranieri per tutti», dice uno. E un altro: «La cittadinanza dev’essere meritata».

Il concetto della meritocrazia ritorna come un filo rosso tradendo il sussistere dell’associazione concettuale tra “straniero” e “indolenza”, “svogliatezza”. Un altro intervistato enfatizza la sterilità dell’intero dibattito: «Un bambino anche senza cittadinanza ha tutti i diritti scolastici, sanitari ed economici degli italiani. Questa legge non serve. Sarebbe più utile fornire servizi migliori ai cittadini, italiani o stranieri che siano».

«Li inseriremo, facendo crescere la comunità»

I commenti del nostro sondaggio proseguono a cascata e consentono ai lettori di esprimere opinioni pur opinabili, altrimenti latenti, inascoltate. «Altre culture che non vogliono adeguarsi al nostro modo di vivere, non accettano regole di vita comune, si ghettizzano tra loro, non vogliono inserirsi tra noi, troppe differenze», discetta una persona.

Ma molte scelgono piuttosto la complessità di pensiero, l’identificazione con l’altro: «Penso non si debba tener conto di un solo parametro e che l’essere italiani non dipenda esclusivamente dal sangue. Un ragazzo di origine marocchina, nato in Italia, che parla in italiano, non può che considerarsi italiano».

Le risposte più dense di significati emergono però sul fronte dei potenziali rischi legati all’approvazione dello ius soli, che «Non ci sono», come dicono in parecchi. Ma si arriva anche a: «Verranno tutte a partorire in Italia, così rimarranno», «Invasione», «Incremento del terrorismo».

La paura c’è, pur controbilanciata da analisi meno drammatiche: «Non c’è nessun pericolo, se non quello di concedere a persone di fatto già italiane una migliore integrazione. Prevenendo i rischi che derivano dal mancato inserimento sociale, incentiveremo il loro contributo economico, occupazionale e culturale al nostro Paese».

La sottile diffidenza razziale, il timore dell’invasione e del caos, l’associazione del concetto di straniero agli episodi terroristici recenti o ad aggettivi poco lodevoli è una tentazione facile. La paura consente di imputare a un capro espiatorio le proprie mancanze e si configura come un’emozione latente ed embrionale, che in potenza può crescere e proliferare. Tuttavia, la sensibilizzazione e l’informazione possono funzionare da antidoti a moti reattivi profondi, di riluttanza e respingimento. Per questo abbiamo tentato di raccontare le storie di chi ogni giorno vive lo ius soli non solo come una legge da approvare, oggi ferma in Parlamento, ma come quotidiane sensazioni, emozioni, memorie, in definitiva vita.

 m.v.

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