Biotestamento: la fine della vita nelle nostre mani

Biotestamento: la fine della vita nelle nostre mani

IL COLLOQUIO Don Franco Ciravegna contesta alcuni punti della nuova legge, che indebolisce il rapporto medico-paziente e non riconosce l’obiezione

Il 31 gennaio è entrata in vigore la legge sul biotestamento, la norma sul fine vita che non manca di coinvolgere le coscienze. Ad Alba il Comune ne è stato precursore, istituendo nel 2010 un registro per il testamento biologico (a cui ben pochi, per la verità, si sono rivolti). Va chiarito che l’incipit della legge, all’articolo 1 richiama «il diritto alla vita, alla salute, alla dignità»: per sgombrare il campo dagli equivoci, significa che non si possono esigere trattamenti quali il suicidio assistito o l’eutanasia, che nel nostro Paese sono vietati. Secondo il parere dell’avvocato albese Roberto Ponzio, la questione si pone in termini chiari: «Con la sottoscrizione delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) si decide, mentre si è in grado d’intendere e volere, quali cure si vogliono accettare o rifiutare nell’ipotesi in cui subentri un’incapacità mentale».
Ma le domande non mancano: ne parliamo con don Franco Ciravegna, teologo, esperto di bioetica e famiglia.

C’era davvero bisogno di questa legge, don Franco?
«Una legge era necessaria perché venisse rispettata la vita umana nella sua fase finale, ricordando che la persona va tutelata in quanto esiste, per ciò che è, non per quello che appare. In realtà, però, ci troviamo di fronte a un altro scenario: l’indebolimento del rapporto medico-paziente; la nutrizione e l’idratazione come terapia clinica; la mancanza dell’obiezione di coscienza».

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Don Franco Ciravegna

Quali sono i criteri che ispirano l’azione della Chiesa in questa materia?
«Un criterio fondamentale è quello della proporzionalità nelle cure. Nell’imminenza di una morte inevitabile, nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Non è mai in questione la vita della persona, ma l’efficacia della cura».

Perché la Chiesa contesta la rottura dell’alleanza medico-paziente?
«Ogni buona relazione è basata sulla reciproca volontà d’incontro e di comprensione. È quanto dovrebbe avvenire nell’alleanza medico-paziente. La persona malata, e in molti casi anche i familiari, dovranno prepararsi a essere protagonisti informati delle scelte mediche, in un rinnovato rapporto di fiducia con coloro che hanno come unico fine il benessere della persona che viene loro affidata».

Nel numero 8 di Gazzetta d’Alba, in edicola dal 20 febbraio, l’intervista completa a don Franco Ciravegna.

m.g.o.

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