È morto Enrico Necade, artista della fotografia

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Enrico Necade

LUTTO Enrico Necade, uno dei più apprezzati e talentuosi fotografi di Alba, è morto. Aveva 82 anni. Aveva lavorato a lungo con Beppe Viglino, suo cognato, nello storico laboratorio di fotografia in via Roma. Con la Famija albèisa aveva pubblicato numerosi volumi collaborando con Antonio Buccolo, Giulio Parusso, Giuseppe Bressano.

Il Rosario sarà recitato nella parrocchia di San Damiano, ad Alba, questa sera, mercoledì, alle 20.30. Il funerale si svolgerà giovedì 29, alle 15, sempre nella chiesa di San Damiano.

Di seguito riproponiamo l’intervista che aveva concesso a Bruna Bonino ed Enzo Massa, uscita su Gazzetta d’Alba del 16 febbraio 2011.

È morto Enrico Necade, artista della fotografia

Enrico Necade, albese, ha documentato la Langa e l’ambiente albese nel corso di decenni con migliaia di immagini. Molte sue opere sono apparse in riviste italiane e straniere e in monografie fotografiche. Sono numerose le pubblicazioni della Famija albèisa con sue foto. Ricordiamo, inoltre, Posti della malora, pubblicazione tratta dai racconti di Beppe Fenoglio edita dal Gruppo fotografico albese, associazione di cui Enrico fa parte. Il compianto Raoul Molinari, nel 2005, scriveva di lui: «Ancora oggi, instancabilmente, è alla ricerca di nuovi soggetti, sia paesaggisti che umani». «Ho sempre letto molto sulla fotografia», racconta Necade, «perché ritengo sia importante capire il pensiero di unautore, serve per comprendere l’essenza dell’immagine che si ha davanti e anche per convenire a un confronto costruttivo. In gioventù acquistavo soprattutto libri sulla tecnica, che è senza dubbio la base principale su cui costruire l’attività di fotografo, poi mi sono avvicinato a testi scritti dagli autori stessi proprio per orientarmi a una conoscenza più approfondita. Mi sono molto documentato attraverso volumi che narrano di popoli ed etnie. La storia che nasce da queste due immagini, il massacrin e un caratteristico soggetto della Langa, ci parla di personaggi della nostra terra ed è una storia personale, perché legata a un tema che ho sempre amato: la gente. Un’attenzione particolare l’ho sempre dedicata alle mani delle persone perché rappresentano uno strumento fondamentale del lavoro».

Come nascono immagini come queste?

«Dietro a fotografie come queste c’è un grande lavoro di ricerca e pazienza per stabilire dei contatti con le persone basati sulla fiducia. Il mio punto principale di riferimento era il mercato del sabato mattina ad Alba. Mi appostavo negli angoli delle piazze o delle vie del centro e poi osservavo. Scrutavo i visi, le espressioni che si manifestavano nel proporre la merce, le mani che gesticolavano, mi domandavo che tipo di persona fosse e ci giravo intorno. Trovavo particolarmente caratteristico il mercato delle uve in piazza Savona, davanti al bar Umberto, che allora veniva chiamato il mercato dei busiard. Quindi mi avvicinavo al personaggio che avevo deciso di ritrarre e quasi in punta di piedi, con tatto e correttezza, mi facevo conoscere, proponevo le mie intenzioni e il mio progetto fotografico. Infine arrivava l’accordo per un incontro. Il lunedì era il mio giorno libero, così mi attrezzavo di buone scarpe, un libro da leggere, se per caso avessi dovuto aspettare la luce giusta per un paesaggio che si fosse presentato d’improvviso, il treppiede, la mia Hasselblad “6×6” e i quattro obiettivi , un 50, un 80, un 150 e un 250 millimetri. Le pellicole che usavo di più erano la Kodak Panatomic, Ilford FP4, anche se non mi soffermavo su un particolare tipo perché mi piaceva sperimentare pellicole diverse. Trovavo famiglie intere ad aspettarmi. Succedeva anche che mi invitassero a pranzo; mi raccontavano le loro storie e, ancor prima delle fotografie, nascevano stupende amicizie e rapporti di stima. Era mia consuetudine ritornare e consegnare alcune delle immagini scattate».

 E una volta tornato a casa?

«Mi chiudevo immediatamente in camera oscura, sviluppavo il rullino e stampavo i provini a contatto, quindi iniziavo a segnare sul retro una nota di quel momento e appunti tecnici e d’archivio. Riponevo il tutto nel “dimenticatoio”, un cassetto dove le fotografie sostavano per diversi giorni o settimane in modo che la memoria visiva fosse cancellata. In questo modo il senso critico si affina. Le fotografie vanno “lasciate a riposo” perché se presi dall’estasi di finire tutto e in fretta si rischia di realizzare un lavoro esclusivamente legato all’emozione dell’attimo in cui si scatta. Il momento magico è la stampa, in cui ti avvicini lentamente alla fotografia visualizzata prima dello scatto. Guardavo e riguardavo l’immagine, riflettevo e fischiettando brani jazz riuscivo a ottenere la massima concentrazione. A questo punto era pronta la prima stampa».

Quindi una foto bella dev’essere programmata?

«Sì, sono convinto che una foto debba sempre essere programmata mentalmente. Esistono anche le fotografie da stradun: è una mia espressione, che sta a rappresentare un modo di fotografare dal ciglio della strada e spesse volte addirittura dal finestrino dell’auto; si tratta di immagini non visualizzate nel modo migliore. Sono parecchie le volte in cui sono partito e tornato senza neppure uno scatto. Magari solo qualche appunto sulla luce e sul posto per tornare in un momento più opportuno. Fotografare le persone è sempre stato il mio progetto più importante, ma ho portato avanti altri temi, ho lavorato molto alla ricerca della forma osservando la natura. Proprio perché dietro a ogni immagine c’è una storia, bisogna avere il tempo per soffermarsi davanti a essa,riflettere e cogliere il messaggio nella sua interezza. La fotografia si fa leggere più che guardare».

Bruna Bonino

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