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Carlo Gai: «La nostra linea è investire»

Carlo Gai: «La nostra linea è investire»
Carlo Gai

L’INTERVISTA Parliamo con l’ingegner Carlo Gai, artefice con la sua famiglia dello sviluppo dell’azienda di Ceresole, nata nel 1946 nel Torinese e approdata oggi alla terza generazione, con uno spirito proiettato al futuro.

Gai è un’azienda 4.0, ma il cambiamento è iniziato almeno dieci anni addietro, all’inizio della grande crisi: è così, ingegner Carlo?

«Il 2008 – l’anno in cui ebbe inizio la congiuntura mondiale – è stato l’unico in cui abbiamo perso fatturato, scendendo da 25 milioni di euro a 20 milioni».

Come avete reagito?

«Lo dico con orgoglio: niente cassa integrazione alla Gai, nonostante i consigli del nostro commercialista. Abbiamo ridotto gli straordinari, ma abbiamo accelerato la progettazione, pensando di uscire dalle difficoltà con nuove produzioni. Occorreva cambiare indirizzo: anziché produrre solo macchine per l’enologia abbiamo virato verso l’industria dell’imbottigliamento e aggiunto il settore delle microbirrerie».

Dunque, il 2008 ha segnato la svolta?

«Sì, è stato l’anno in cui la famiglia Gai ha messo denaro a disposizione dell’azienda, così come ha sempre fatto, del resto, reinvestendo. Ma in quella contingenza abbiamo attinto alle riserve».

Una scelta lungimirante – che non tutti gli imprenditori hanno saputo fare – quanto vincente?

«Certamente! Basta guardare ai numeri. Nel 2008, come ho detto, il fatturato era sceso a 20 milioni di euro; nel 2018 abbiamo l’obiettivo di arrivare a 50, vale a dire a due volte e mezzo».

Sempre investendo?

«La Gai ne fa una politica: negli ultimi dieci anni abbiamo investito annualmente oltre il 25 per cento del fatturato tra attrezzature (10-15 per cento) ed edifici. Naturalmente, abbiamo profittato dei bassi tassi d’interesse, puntando pure sui benefici concessi all’industria 4.0».

Che cosa significa essere un’industria 4.0?

«Non è uno stato dell’arte così ben definito. Si può dire che nell’industria 4.0 il legame tra la produzione e il gestionale è particolarmente stretto, tanto che tutti i dati dell’azienda devono essere continuamente disponibili per ogni settore. So che la mia definizione è piuttosto vaga. Per quanto ci riguarda ci affidiamo all’Ucima (Unione costruttori italiani macchine automatiche per il confezionamento e l’imballaggio), che assume la decisione circa la certificazione 4.0 delle attrezzature».

La tendenza all’automazione industriale (che integra le nuove tecnologie per migliorare le condizioni di lavoro e aumentare la produttività e la qualità degli impianti) influisce sul numero degli addetti?

«Ancora una volta, basta guardare ai numeri: nel 2008 eravamo 130, ora siamo 215 a Ceresole. Piuttosto, la manodopera cambia funzione. Anche in produzione si lavora a un computer o nell’ufficio a lato della macchina per la programmazione. Le imprese che non si sono attrezzate con macchine a controllo numerico sono uscite dal mercato o i loro titolari sono diventati artigiani».

Nello sviluppo della Gai ha contato molto l’energia, quella che voi producete.

«Lo spunto, bisogna dirlo, è stato originato da un problema: la scarsa qualità della fornitura pubblica di energia ci causava un centinaio di microinterruzioni l’anno (da meno di un secondo). In quella frazione, però, le macchine a controllo numerico si fermano e possono subire danni importanti. Così, abbiamo pensato a un generatore d’emergenza, che ci ha dato il là per un trigeneratore. Oggi il fabbisogno energetico e termico della Gai è coperto interamente da fonti interne non inquinanti: fotovoltaico e solare termico, con duemila kWp (l’unità di misura utilizzata per indicare la potenza istantanea erogata da una cella fotovoltaica in determinate condizioni standard) di pannelli collocati sui tetti e tre cogeneratori a metano».

La scelta ha una forte valenza economica, oltre che ambientale.

«La spesa per riscaldamento e raffrescamento è irrisoria ed equivale a circa 10mila euro l’anno per tutto l’edificio (47mila metri coperti su un’area di 170mila). Il risparmio annuo è di alcune centinaia di migliaia di euro, ma il vero vantaggio consiste nei danni evitati, eliminando le interruzioni. A realizzare il sistema Aspec industry e a brevettarlo è stato il gruppo Marengo di Alba».

Insomma, siete un’azienda familiare che sa guardare dritta al futuro.

«Sì, siamo un’azienda familiare perché tutte le quote sono detenute dalle famiglie Gai: in azienda ci sono io, che seguo ricerca e sviluppo, mia moglie, che si occupa di finanze, i miei figli Guglielmo e Giovanni e mio nipote Giacomo».

Quello generazionale non è un passaggio facile.

«È sempre difficile convincere l’anziano a fidarsi dei giovani. Il modo di affrontare i problemi non è mai identico. Nel nostro caso sono ottimista, perché la famiglia si è distribuita i compiti e ognuno risponde del suo settore. Per ora ho diritto a fissare gli obiettivi e sono dieci anni che li raggiungo. Anzi, rispetto al programma del 2008, siamo quasi due anni in anticipo sui risultati!».

Dalla crisi Gai è uscita potenziata, ripensandosi. Così potrebbe fare il Paese?

«Sicuramente. L’Italia ha moltissime qualità, purtroppo limitate da altrettanti difetti. Come imprenditore devo dire che la qualità della manodopera (nel nostro caso piemontese) è notevole. Il nostro collaboratore ha un senso di appartenenza all’azienda non più usuale ma determinante per il buon andamento e, in media, è capace di usare la testa, risolvendo situazioni non programmate. Se negli Stati Uniti ho un problema, so che inviando un tecnico da Ceresole lo risolverò. È il di più che abbiamo rispetto ai competitori stranieri».

Maria Grazia Olivero

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