Il nostro reportage da Ventimiglia tra i migranti che sognano la Francia

Proglio, albese che fa ricerca sulle migrazioni 1

Andiamo sulla strada dei migranti, al confine ligure del nostro Paese, lungo il difficile percorso di quanti cercano d’entrare in terra francese

REPORTAGE Con i mezzi pubblici non è facile arrivare a Ventimiglia, protetta da mare e montagne. Da Alba dista solo duecento chilometri, ma le difficoltà del percorso non sono che una frazione di quelle che attendono il viaggiatore a destinazione. Se non avessi la preziosa guida del ricercatore Gabriele Proglio, albese, uno dei massimi esperti di migrazioni nel Mar Mediterraneo, non vedrei anomalie sotto la pelle all’apparenza normale della città di confine: negozi, clacson, compravendite, passeggini e semafori. Si intuisce però l’innominabile tragedia che si consuma tutti i giorni.

Immaginiamo una tela. Per vedere l’insieme si parte dagli elementi di dettaglio. Il primo è la sorveglianza. Pattuglie girano in continuazione a presidio di parchi, spiagge, stazione. Come se da un momento all’altro un nemico dovesse sbucare dal cespuglio e commettere un reato.

Il secondo elemento è l’avvertimento che in questo territorio la morte non è un concetto remoto, ma probabile. Alcuni cartelli, appena arrivati in stazione, spiegano che «salendo sui tetti dei treni, i fili elettrici possono uccidere anche se non li tocchi». Molti migranti per arrivare alla loro meta, la Francia, trasgrediscono l’ammonizione.

Il terzo elemento è la complicità. Ventimiglia è contenitore di malavita e nessuno si oppone. Appena esco dalla stazione, al fondo di una passerella, c’è il punto di raccolta delle ragazze nigeriane che diventeranno prostitute. È una sorta di luogo d’iniziazione: da giovani migranti a schiave del sesso in pochi secondi, quelli che separano il predellino del treno dall’ingresso della stazione. Nessuno fa nulla, o meglio: il nulla è la sola opposizione possibile per chi ha paura.

A Ventimiglia, viaggio sul Passo della morte

È proprio la paura il quarto elemento che sento quando, con Proglio, visitiamo il Passo della morte. Ma non è paura di cadere o di chissà quale fantasma. Lo sgomento viene procurato dalla differenza tra i bellissimi paesaggi e la crudeltà di cui sono l’obbligato palcoscenico. Prendiamo la macchina e procediamo verso Grimaldi, una frazione in altura a circa 5 chilometri dal centro. Lì parte uno dei sentieri che, mi spiega il ricercatore, «è stato calpestato da est-europei, ebrei, palestinesi, etnie in fuga da dittature o persecuzioni razziali».

Si tratta di una passatoia nella montagna: in tre o quattro ore di cammino porta a oltrepassare il confine tra Italia e Francia. Molti africani la percorrono per lasciare il nostro Paese, che non offre loro nulla se non la precarietà, la mancata integrazione e attese di almeno due anni nella speranza, sovente vana, di ottenere un permesso di soggiorno. Camminare sulla roccia del Passo della morte fa impressione e suscita identificazione. Ognuno ha una parte migrante dentro di sé: convocarla nel presente in uno scenario simile sollecita le lacrime.

INCHIESTA: umanità dimenticata

Arriviamo a una grotta. Per raggiungerla bisogna salire alcuni gradini. Lì troviamo i resti di un’umanità in fuga da un’altra umanità. Ci sono scarpe, soprattutto. Le scarpe sono l’unico oggetto di cui molti migranti hanno un doppione, una replica. In procinto di attraversare il confine, lasciano nella grotta il superfluo. Sotto la pietra si riposano qualche ora prima di affrontare la camminata che determinerà il loro destino. Una volta in Francia molti saranno presi dalla severissima Polizia e rimandati indietro, oppure messi su un autobus e spediti in una struttura a Crotone. Altri invece ce la faranno.

Se i giornalisti aggiustano la scena per fare audience

Peggio può andare a chi non sceglie di proseguire per le montagne, ma per le gallerie sottostanti: camminando lungo la corsia di emergenza in tempo notturno, talvolta i migranti vengono schiacciati e uccisi dai Tir in corsa. Tutti conserveranno il ricordo di quella grotta come l’avamposto del futuro, l’ultima miseria prima della sperata felicità.

Matteo Viberti

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