La salvezza arriva attraverso la debolezza umana

UN PENSIERO PER DOMENICA – 8 LUGLIO – XIV TEMPO ORDINARIO

Il filo rosso che lega le letture della XIV domenica del tempo ordinario è molto chiaro: la solitudine del profeta, che diventa particolarmente evidente nei momenti difficili come gli inizi. Come documentato dai brani biblici odierni, hanno fatto questa esperienza sia Ezechiele profeta tra gli esuli a Babilonia (Ez 2,2-5), sia Gesù a Nazareth (Mc 6,1-6), sia l’apostolo Paolo nei suoi viaggi missionari (2Cor 12,7-10).

L’inizio in sordina è una costante in tutti i processi vitali: nella vita (vegetale, animale e umana), in quelli intellettuali e nella storia della salvezza. Ezechiele ha cominciato la sua predicazione tra gruppetti di esuli dispersi nel vasto territorio della piana del Tigri e dell’Eufrate. Gesù è partito dai villaggi della Galilea; Paolo dalle sinagoghe degli ebrei, una minoranza, anche se potente, nei vasti territori dell’impero romano. Le stesse comunità cristiane a cui ha indirizzato le sue lettere erano composte alcune da poche decine, altre da poche centinaia di membri: la classica goccia nel mare.

La salvezza arriva attraverso la debolezza umana
Sopra: Gesù cacciato dalla sinagoga di Nazareth. È una delle tavole del pittore Nino Gregori per la Bibbia a fascicoli realizzata da Famiglia cristiana.

Le folle cercano sempre l’uomo forte. Nella Bibbia vediamo anticipata e descritta una costante della storia: l’attesa dell’uomo forte, di un “salvatore”, che con la parola o la bacchetta magica risolva i problemi, sconfiggendo storici nemici e creando i presupposti di un futuro tutto rose e fiori. Se compare un uomo comune, un “carpentiere” come Gesù o un “tessitore” come Paolo, scatta la delusione: i cuori e le orecchie si chiudono e non si ascolta più. Le parole dell’annuncio diventano “scandalo”, ossia ostacolo sulla strada della salvezza. Meglio cercare altri messaggi, specie se urlati!

Accettare le proprie fragilità senza scoraggiarsi è allora la sfida di chi vuole annunciare il Vangelo di salvezza. Paolo evidenzia la fatica che ha dovuto fare per imparare l’arte di essere fragile, per accettare le proprie mancanze: «Per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me». Non sappiamo se la «spina nella carne» di cui parla fosse un malessere fisico, psicologico o spirituale; certo era una debolezza fastidiosa e difficile da accettare. Anche oggi, chi prova ad annunciare il Vangelo vive le esperienze raccontate nelle letture di questa domenica, spesso proprio con le persone più vicine. Pensiamo al tormento di genitori e nonni, oltre che di tanti catechisti e preti, di non riuscire a far cogliere la “gioia del Vangelo” alle giovani generazioni. Molto consolanti sono allora le parole di Paolo: «Quando sono debole, è allora che sono forte». Magari perché faccio spazio al Dio che salva.

Lidia e Battista Galvagno

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