Ultime notizie

La guerra non è cosa buona

LUIGI GALLIANO, CLASSE 1923

Il ricordo della prigionia è sempre vivo nella mente di chi visse l’esperienza della guerra e della deportazione. Ne parla spesso Luigi Galliano, classe 1923.

Albese di adozione, oggi vive a Gallo con la famiglia della figlia Franca, ma è originario di Mombarcaro, località Brichetto. Era il 1942 quando partì soldato, lasciando i genitori e sette fratelli, di cui uno partigiano.

Fu mandato a Mondovì, con il primo Reggimento Alpini, per seguire un addestramento finalizzato alla spedizione in Russia. Dopo due mesi di marce estenuanti di 70-100 chilometri e pochissimo cibo – «Avere soldi in tasca non serviva a niente: per il cibo serviva la tessera, che dava diritto a due etti di pane al giorno: di più non era possibile avere», spiega Luigi , un improvviso cambiamento di programma fece sì che fosse spedito a Gorizia. Vi rimase due mesi, impegnato nei rastrellamenti dei ribelli. La vita da militare era dura: «Sul Carso mancava l’acqua e la sete era peggio della fame».

La tappa successiva fu Bolzano e infine il Passo della Mendola: là lo colse l’armistizio, l’8 settembre del 1943. Fu fatto prigioniero dai tedeschi e deportato prima al campo di concentramento di Limburg, poi al campo di lavoro di Kettenbach, vicino a Mischelbach, dove restò fino al 28 marzo 1945, giorno in cui gli americani fecero irruzione.

Qualche settimana dopotroviamo Luigi Galliano al campo di aviazione militare di Wiesbaden, dove rimase alcuni mesi a lavorare per gli americani. Ogni sera faceva visita a una famiglia di tedeschi. La partenza degli americani segnò per Luigi il momento di lasciare la Germania. Prima Stoccarda, poi Ulm, da dove partivano le tradotte per l’Italia. A casa, a Mombarcaro, Galliano ci arrivò il primo agosto. Un bagno nel Belbo segnò il suo ritorno alla normalità.

Al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943, era militare di leva a Bolzano. Quale fu la vostra reazione, Galliano?

«Fino al giorno prima noi e i tedeschi eravamo compagni. Alla notizia pensammo di festeggiare; non sapevamo che quello sarebbe stato l’inizio di un’altra guerra, ancora più cruenta. Non sapevamo niente, non avevamo idea di cosa ci aspettasse, né quale nemico dovessimo combattere. I tedeschi ci dissero che se avessimo consegnato loro le armi saremmo stati liberi. Invece, una volta disarmati ci puntarono le mitraglie contro. Ci privarono di cibo e vestiti e ci condussero a Bolzano. Eravamo circa diecimila. Faceva freddo e avevamo fame,mala cosa peggiore era non avere notizie su quanto stava accadendo».

Che cosa ricorda del suo viaggio di deportazione?

«Alla stazione ci caricarono su carri bestiame. Eravamo settanta per vagone, con una cassettina di mele da dividere tra tutti, a digiuno da due giorni. Partimmo di notte, senza sapere a quale destino andavamo incontro. Poche ore dopo, sentendo l’altoparlante di una stazione, capimmo che avevamo oltrepassato la frontiera. L’unica sosta del convoglio fu dopo mezzogiorno, in Austria. Un mestolo ciascuno di crauti immangiabili: per spregio, ad alcuni di noi li diedero senza sale, i miei erano salatissimi. Poi risalimmo sul treno che ci condusse a Limburg. Dalla stazione camminammo per alcuni chilometri per arrivare, a notte inoltrata, al campo di concentramento, in aperta campagna ».

Com’era la vita al campo di concentramento?

«A Limburg l a gente moriva. Eravamo stipati in grandi baracche di legno con letti a castello. Da mangiare ricevevamo a mezzogiorno un mestolo di brodaglia, la sera un decotto. All’inizio trovavamo qualcosa da rosicchiare nei campi, un pezzo di cavolo, piccole patate. Dopo un mese ci eravamo mangiati anche l’erba. Dopo pochi giorni non avevo più nemmeno le forze per fare i tre gradini che conducevano alla baracca».

Poi, fu prelevato per lavorare in una fabbrica.

«Ogni giorno venivano a prendere qualcuno per portarlo a lavorare. Un mattino mi feci avanti, insieme a un mio compagno. Ci mandarono in una fabbrica di granate antiaeree, a lavorare con i muratori. Lavoravamo dieci-dodici ore al giorno, dal lunedì al venerdì, mentre il sabato pomeriggio e la domenica, sempre stanchi e a stomaco vuoto, ci mandavano alla stazione a scaricare i vagoni di carbone. Da mangiare ci davano barbabietole bollite con poche patate e crauti acidissimi. A cena, minestrone diluito. La fame era una costante, non ci abbandonava mai. Dormivamo in 50 in una baracca. Ognuno aveva un pagliericcio e due copertine da campo e doveva farsele bastare anche in inverno, quando il freddo era pungente. Io una l’avevo tagliata per farmi un gilet: me ne restavano una e mezza. Fino alle due o alle tre di notte, per la stanchezza, il rumore e i pidocchi, era impossibile prendere sonno. Alle cinque dovevamo alzarci. Due chilometri, da percorrere a piedi, ci separavano dalla fabbrica. Qualcuno riuscì a scappare, ma venne riacciuffato, lasciato senza cibo e rimandato al lavoro».

Che rapporto avevate con i tedeschi del campo?

«La vita al campo era difficile anche per loro. Lavoravano e facevano la fame proprio come noi, per un tozzo di pane. Anche a loro la guerra non piaceva: “Krieg ist nicht gut”, “la guerra non è cosa buona”, ripetevano. Con il capo, il rapporto era buono, invece. Aveva chiesto di aumentarci il rancio, perché il nostro era un lavoro pesante. Un giorno,mentre lavoravo, mi mancarono le forze e la mazza che tenevo mi finì dritta sulla sua testa. Pensavo mi avrebbe ammazzato, invece mi diede un paio di pugni e mi rispedì al lavoro».

Cosa sapevate della guerra dal campo?

«Vivevamo di ricordi, pensavamo alle nostre famiglie. Io avevo vent’anni emi facevo coraggio. Lavoravo all’aperto, a volte trovavo qualcosa da mettere sotto i denti: radici e mele marce non mi erano mai sembrate così buone. Notizie sull’andamento della guerra non ne avevamo».

Per chi guarda la guerra per averla vissuta, può dirci a cosa è servita?

«A niente. La guerra ha mai portato nulla di buono».

 

LA LIBERAZIONE

Che cosa ricorda della Liberazione, Galliano?

«Alla fine del ’44, all’approssimarsi della disfatta dei tedeschi, vissi il periodo più difficile. Eravamo demoralizzati e abbandonati a noi stessi. Con l’avanzata degli americani, i bombardamenti si erano fatti continui. Poi venne il 28 marzo 1945: andammo in strada, attirati dal fracasso, e ci trovammo faccia a faccia con i carri armati americani».

Come trascorsero i mesi prima del rientro in Italia?

«Rimasi alcuni mesi con gli americani. Non lavorava più nessuno. Insieme al mio amico Carlo andai a lavorare a Wiesbaden nelle cucine del campo di aviazione americano. Là scoprimmo un’abbondanza che avevamo dimenticato: c’era il pane bianco, e addirittura la carne, cioccolata e sigarette a volontà. Gli avanzi di quei lauti pasti venivano portati ai civili tedeschi, donne e bambini ridotti alla fame. Dagli americani ricevevamo cibo e vestiti. Aiutandoli a caricare, a ogni viaggio ai magazzini mi infilavo un maglione e un paio di pantaloni: al mio ritorno a casa, ho vestito tutta la mia famiglia. Fu a luglio, quando gli americani se ne andarono, che decisi di tornare a casa. In stazione c’era moltissima gente. Andai prima a Stoccarda, poi a Ulm, dove c’era un campo di smistamento con tradotte dirette in Italia. Là qualcuno mi toccò la spalla: era Giacomo, un mio compaesano. Ricordo le urla di gioia quando, dal convoglio, sentimmo gli altoparlanti parlare italiano, segno che avevamo passato la frontiera. Arrivai alla stazione di Milano a notte fonda, passando per Pescantina. Da lì, la mattina dopo, ripartii con altre quattrocento persone alla volta di Torino».

Elisa Pira

Banner Gazzetta d'Alba