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Patrick Gabarrou: «Non puoi mentire alla montagna»

Patrick Gabarrou è uno degli alpinisti di punta più famosi al mondo. Francese, laureato in filosofia alla Sorbona, ha iniziato ad arrampicare a 14 anni. L’abbiamo incontrato all’America dei Boschi di Pocapaglia, in casa di Franca Torre, custode del rifugio Franco Remondino, ai piedi dell’Argentera.

Patrick, lei è considerato uno dei più grandi alpinisti viventi al mondo. Le dà più soddisfazione cuocere una cipolla nella brace in Patagonia in attesa che il tempo migliori o affrontare uno dei grandi problemi alpinistici ancora irrisolti?

«La storia della cipolla cotta a fuoco lentissimo in un bivacco è vera. Io sono un uomo d’azione. Posso non arrampicare per parecchi giorni, ma non posso far passare un solo giorno senza leggere, pensare, meditare, scrivere, pregare».

In un’intervista a Claude Gardien lei apre il suo animo e racconta della sua vita in modo semplice e ammirevole. Del suo amore per la figlia Heidi, per la montagna, delle piccole soddisfazioni nell’accompagnare sui monti persone con handicap. Per certe salite ci vuole una grande forza fisica, tanta volontà. Come vive questa contraddizione?

«Non c’è contraddizione. Ho fatto delle competizioni, sono stato campione francese di sci alpinismo. Mail giorno dopo potevo passare un’ora a contemplare il paesaggio, i fiori, il cielo. Ho la fortuna di avere buona salute, un fisico sano che mi è stato dato senza alcun merito da parte mia».

La soddisfazione di camminare sui prati fioriti è pari all’arrivo su una cima inviolata, godere il tramonto da un rifugio. Ha mai avuto paura di non farcela?

«Sono sentimentale, pensavo che la montagna non fosse per me. Ma poi scoprii di avere delle risorse, delle possibilità. Mi sento in armonia profonda con la montagna, che non puoi tradire. Non puoi mentire. Sono sempre contento di lasciare la macchina e di prendere in spalla lo zaino. In questo momento sto bene, ma quattro anni fa ho avuto un incidente gravissimo che mi ha portato vicino alla morte…».

Lei ama le Alpi Marittime, l’Argentera. Qual è stata la sua arrampicata più difficile su queste montagne, a noi cuneesi così care?

«Non ho salito le vie considerate più difficili. Ma ho aperto tante vie nuove. Per me è la verticalità, la linea estetica che conta. Davanti al rifugio Morelli spicca imponente il monte Stella dove ho aperto con degli amici, tra cui il bravissimo Ilario Tealdi di Borgo San Dalmazzo, una via intitolata Michelangelo. Non è la più difficile, al massimo è di grado 6C. Ma la sua linea è magnifica. Sul gruppo del Nasta abbiamo aperto una nuova via chiamata Bouquet d’amis (Gruppo di amici). Le difficoltà sono importanti ma non essenziali».

Lei, pur arrampicando in tutto il mondo, ha trovato il suo ambiente ideale nelle Alpi…

«Sì, poi del Cervino ho una storia particolare. Abbiamo aperto una via sul Naso di Zmutt con Cesare Ravaschietto, una guida di Cuneo, un fuoriclasse, che abbiamo intitolato Free Tibet. Poi un’altra dedicata a Padre Pio e un’altra agli amici alpinisti scomparsi».

Patrick, lei è una leggenda vivente dell’alpinismo mondiale. Per noi italiani alla pari di Comici, Maestri, Messner… Preferisce le affollate conferenze e gli applausi oppure il silenzio dei monti?

«Quando mi dicono che sono una leggenda vivente mi metto a ridere. Sono soltanto un ragazzo, un uomo che percorre la sua vita; io che sono cristiano so di andare incontro alla vita eterna. Mi piace il silenzio dei monti ma anche entrare in una sala affollata per dialogare e far sognare la gente. Gli italiani mi dicono: sei il solo che parli sempre dei tuoi amici, viventi o scomparsi. Sì, perché in montagna è la cordata che conta, che è forte, non il singolo. Uno più uno uguale a tre. Tre amici, con pari dignità».

Nessun alpinista ammetterà mai di essere andato oltre le proprie forze. Lei si è mai pentito di aver rischiato troppo?

«No. Ma guardandomi indietro qualche cosa di non buono l’ho fatto, come la salita sui seracchi con Cometto e Gogna. Ho aperto delle vie che adesso giudico follia. I seracchi cadono senza previsione. Sono pericolosissimi. Ho fatto cose difficili, ma solo quando mi sentivo in perfetta forma, in pace con me stesso. Non ho mai sognato di morire in montagna. Spero di morire avendo il tempo di pregare un poco…».

Lei ha intitolato alla Divina Provvidenza una sua celebre via sul Grand Pilier d’Angle del Monte Bianco. Cos’è la montagna in rapporto a Dio e alla fede?

«Non considero la montagna una divinità. Dio è un’altra cosa. La montagna è un mondo dove posso sentire la mia debolezza, la mia piccolezza. Un pomeriggio tra le due cime del Cervino, in una calma assoluta, senza un filo di vento, ho vissuto un momento di eternità. Mi sono detto: perché non posso stare qui per sempre?».

Parlare con Patrick Gabarrou è un grande insegnamento, di umiltà innanzitutto, di amicizia, di umanità, e anche di fede profonda. Cose che solo i “grandi” possiedono.

Grazie Patrick.

Severino Marcato

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