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Il mastodonte dimenticato

MastodonteRimasti occultati per milioni di anni da terra e fiume, a fine luglio dell’anno scorso i residui del mastodonte (simile per conformazione fisica all’odierno elefante) erano stati recuperati nell’area di confine tra Verduno e Santa Vittoria da un giovane ricercatore del museo Eusebio di Alba, Edmondo Bonelli, e dai collaboratori Simone Colombero, Boris Viglier e Marta Zunino.

Appartenente all’era geologica Messiniana, durata circa da 7 a 5,3 milioni di anni fa, il reperto, per essere riesumato, aveva richiesto il lavoro di parecchi volontari: scalpelli, pennelli, gesso e colla avevano infine consentito di portare alla luce costole, vertebre e perfino due denti, questi ultimi utili a classificare l’animale nella categoria Anancus, mastodonte per l’appunto, sebbene l’appartenenza più specifica rimanga tuttora sconosciuta per insufficienza di indizi.

Una storia assimilabile a un trionfo archeologico per l’intera comunità, che Gazzetta aveva raccontato giusto un anno fa. Peccato che, a un anno di distanza, il destino del grande mammifero appaia accantonato, ridimensionato rispetto alle originarie aspirazioni. Difatti lo scheletro, che per fascino e potenzialità attrattiva avrebbe dovuto incarnare la punta di diamante dell’Eusebio, rimane inaccessibile al pubblico, inglobato in plastica, scagliola e resina, materiali la cui rimozione richiederebbe tempo, lavoro e mobilitazione di competenze.

Spiega il professor Oreste Cavallo, che aveva partecipato al recupero nel 2010: «Il lavoro sul reperto dovrebbe essere effettuato da persone capaci: la rimozione dei materiali in cui il mastodonte è attualmente inglobato, difatti, non è cosa da poco. Eppure, i soldi mancano. L’Amministrazione non è nemmeno riuscita a risarcire le spese ai ricercatori e ai volontari che l’anno scorso contribuirono agli scavi: si tratta di poche centinaia di euro e nonostante il regolamento del Museo preveda il rimborso e io stesso abbia provveduto a sbrigare la burocrazia, non abbiamo ricevuto un quattrino».

Lo scheletro resta dunque nello sgabuzzino, immobile come il programma di ricerca (grazie al quale era stato possibile il sopralluogo fluviale e dunque il recupero del reperto) avviato lo scorso anno dal Dipartimento di scienze della terra dell’Università di Torino in collaborazione con il Museo albese.

«Le condizioni strutturali e idrografiche del fiume impediscono di proseguire nell’esplorazione dei territori nei quali scovammo il mastodonte. Inoltre, non possiamo essere sicuri di individuare nuovo materiale. Perciò, per ora, siamo fermi», conclude Cavallo.Un epilogo silenzioso, dunque: estratto dalla dimenticanza, il fossile è oggi restituito a una nuova staticità. A meno che la politica, oberata da imminenze finanziarie e sociali forse più urgenti, non ci metta lo zampino.

Matteo Viberti

Foto Marcato – Immagine di Chas R. Knight

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