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Domenico Quirico Prigioniero di Gheddafi salvato da due ragazzi

Domenico Quirico è un giornalista, manon solo. È stato caposervizio agli esteri, corrispondente da Parigi, inviato di guerra nel Nord Africa per La Stampa. Il suo stile di racconto è tutt’altro che conformista, non è contaminato da stereotipi o pregiudizi. Due esperienze al limite, in tempi recenti: la prima quando il barcone di migranti tunisini su cui Quirico era salito per «conoscere l’anima dei profughi » è affondato. La seconda durante la rivoluzione libica, quando per un giorno fu prigioniero dei fedeli a Gheddafi. Venerdì scorso Quirico – che risiede a Govone – ha presenziato alla fondazione Ferrero per parlare del suo libro La primavera araba. Le rivoluzioni dall’altra parte del mare.

Cos’è la cosiddetta “primavera araba”? È vero che le rivolte si sono sviluppate grazie a Internet?

«Direi che il migliore mezzo di comunicazione, che ha aggregato e convocato la gente nelle piazze, è stata la disperazione. La mancanza di prospettiva. Indubbiamente Internet ha giocato un ruolo importante, ma solo in alcuni quartieri delle grandi città. Nella maggioranza delle località del Nord Africa non c’è Internet. In altri posti in cui sono stato, ad esempio in Niger, il miracolo consiste nell’accendere un interruttore o nell’aprire un rubinetto. Insomma, la vera rivoluzione l’hanno fatta i diseredati, i ragazzi di periferia, i “teppisti”, i disperati. Non certo la media borghesia egiziana o libica, che sullo status quo avevano fino a quel momento prosperato».

Perché è salito sul barcone di migranti e rivoluzionari tunisini che volevano raggiungere l’Italia? Qual era il suo obiettivo?

«Non sono salito sul barcone per una “dartagnanesca” concezione del giornalismo. Non l’ho fatto per celebrità o per scrivere qualcosa di inedito. Il mio obiettivo era cogliere l’essenza della questione. Avevo capito che solo viaggiando nel tratto capace di trasformare gli uomini in “migranti” avrei percepito l’“anima”, la vera ragione del loro partire».

Com’è andata?

«Il barcone è affondato. Nessun morto, solo qualche ferito. Tutto grazie all’intervento tempestivo della guardia costiera, gente che prende stipendi normali – senza benefit o extra – per salvare ogni giorno vite umane. Quanto a me, ho capito che i migranti, quei tunisini disperati, non venivano qui solo per trovare lavoro o, come qualcuno si ostina a ripetere, “a rubarci i soldi e il lavoro”. Loro venivano qui per vedere. Per vedere il “mondo nuovo”, la loro promessa di salvezza. È stata un’esperienza cruciale, stare sulla barca. Un’esperienza capace di smontare una volta per tutte i pregiudizi, gli stereotipi, le idee facili».

Quest’anno si è salvato una seconda volta durante la rivoluzione libica. Cosa accadde?

«Ero inviato a Tripoli con altri tre colleghi e fummo sequestrati dalle truppe di Gheddafi, che mantenevano ancora il controllo della città. La “detenzione” durò un giorno intero, poi fummo liberati grazie a due ragazzi di vent’anni, che ci sottrassero al linciaggio e ci custodirono nella loro abitazione. Poi ci portarono nell’area dominata dai ribelli, ovvero in zona “amica”. Anche loro erano fedeli a Gheddafi. Noi rappresentavano la personificazione antropologica della loro disgrazia, il motivo simbolico per cui stavano annaspando e rischiando la vita. Eppure ci salvarono. Perché? Per semplice bontà. La banalità del bene è una cosa meravigliosa, che non si può dimenticare».

Mentre era laggiù, che cosa pensava? Non aveva rimpianti, o rimorsi?

«Soprattutto mi sentivo responsabile, perché in quell’occasione era morto il nostro autista».

Dopo aver vissuto tutta questa durezza, come vede l’attuale contesto italiano, la sua crisi economica e le sue difficoltà sociali?

«La nostra crisi è una tempesta in una tazza di tè in confronto alla primavera araba. Laggiù molte cose sono tragiche, la rivoluzione stravolgerà la vita di milioni di persone. Dobbiamo imparare ad assumere prospettive diverse. Noi non siamo il centro. O perlomeno, non lo siamo più».

Matteo Viberti

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