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Quanto conta la scuola

Quasi la metà degli alunni di cittadinanza straniera che frequenta le scuole cuneesi è nata in Italia. Come incide questo dato sulla qualità dell’integrazione? Che cosa significa essere nato e cresciuto in Italia, ma non avere la cittadinanza italiana? Si tratta di un tema cruciale, che si dibatte fortemente nel Paese.

Il primo settore nel quale le seconde generazioni d’immigrati si confrontano con la società è la scuola. Nel nostro Paese gli alunni con cittadinanza non italiana costituiscono una realtà importante. Si è passati dai 59.389 dell’anno scolastico 1996-97 ai 711.064 del 2010-11. Gli alunni rumeni si confermano, per il quinto anno consecutivo, il gruppo più numeroso nelle scuole italiane, seguiti dai ragazzi provenienti dall’Albania e dal Marocco. Tra le novità c’è l’incremento dei moldavi, degli indiani e degli ucraini. Gli studenti con cittadinanza non italiana si concentrano negli istituti tecnici e professionali e in questo differiscono dagli italiani, che prediligono i licei.

Il quadro è interessante per osservare la composizione della società del futuro, perché l’andamento dell’istruzione avrà effetti sull’inserimento nel mondo del lavoro e sulla capacità delle seconde generazioni d’immigrati di costruirsi un reddito. «Solo se gli istituti professionali sapranno offrire una formazione solida e capace di convincere le imprese, gli esiti saranno positivi.

Se invece le imprese, e di conseguenza il mondo del lavoro, percepiranno la scuola professionale come un attestato di fallimento o mancanza di competenze, gli esiti saranno negativi. E questo vale anche per gli studenti italiani», afferma, infatti Michael Eve, dell’Università degli studi del Piemonte orientale, a Pollenzo nei giorni scorsi per il convegno organizzato dalla cooperativa Orso, di cui parliamo in questa pagina.

Secondo i dati del Ministero dell’istruzione, università e ricerca (Miur) la media di ragazzi con cittadinanza non italiana nelle scuole del nostro Paese è del 7,9 per cento.La provincia diCuneo ne conta il 12,3 per cento: indice più basso rispetto ad Asti (16,1) e Alessandria (15), ma più elevato di Torino( 11,1). «Il futuro dell’immigrazione dipenderà più dall’andamento delle disuguaglianze all’interno del sistema scolastico (o nel mercato del lavoro, per gli adulti) che non dalle politiche di sensibilizzazione al multiculturalismo», afferma ancora il prof. Eve.

Una recente ricerca europea (Ties) ha confrontato la scolarità e l’inserimento occupazionale dei figli degli immigrati in diverse nazioni, evidenziando notevoli differenze. In Francia o Belgio essi hanno probabilità maggiori rispetto a quanti vivono in Germania o Austria.

La ragione si trova nell’assetto del sistema educativo: in Francia il bambino che non ha la cittadinanza può accedere all’asilo a tre anni, incontrando prima i suoi coetanei e sviluppando la lingua autoctona, vero perno dello sviluppo di competenze e, quindi, di “nazionalità”. Questo potrebbe essere un punto sul quale soffermarsi per l’Italia anche se da noi, molti ragazzi arrivano in Italia dopo la prima infanzia e quindi sono in una posizione più difficile.

Maurizio Bongioanni

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