«Sono morto: non so più chi sono, non ho più una vita e mi sento dimenticato. Per il mondo non sono nessuno. Vent’anni fa ho smesso di fare il panettiere e dalla Tunisia ho raggiunto i miei cugini qui, ad Alba. Ma non pensavo di trovare questa Italia, desideravo il benessere, invece ho ottenuto solo miseria».
Un uomo sulla quarantina, nordafricano, immigrato regolare si presenta a Gazzetta, pronunciando queste parole, accompagnate da una stretta di mano degna di un guerriero d’altri tempi. Lo incontriamo nei pressi della sua “dimora”, ai margini della città che corre veloce, nonostante i tempi. Cammina rapido e sembra impaziente di mostrare il luogo in cui vive.
A un tratto si ferma, si gira e quasi grida: «Prima di ridurmi così ho chiamato i servizi sociali, ma mi hanno fissato appuntamenti dopo due, tre mesi. La Caritas è imballata anche ad Alba e, anche se ci fossero posti liberi, non potrebbe ospitare a lungo me e i miei compagni. Lo stesso vale per i centri di accoglienza e per le strutture della Chiesa. Il Comune sembra non volere o non poter ascoltare. L’inverno ormai è passato e noi abbiamo rischiato la pelle».
Dev’essere stato proprio così, con le temperature a meno 20 gradi delle scorse settimane. Il tunisino continua: «Lavoro in una cooperativa, nella quale assemblo ferro. Si tratta di un’occupazione part-time; quattro ore al giorno non sono sufficienti per pagare un affitto. Non mi sembra una pretesa chiedere un tetto e un riparo dal freddo, soprattutto se la mia volontà d’integrazione è costante come il mio impegno. Non sono il solo a trovarmi in questa situazione e, nonostante i tempi critici che tutti siamo costretti ad affrontare, nessuno si merita di vivere in simili condizioni».
L’uomo parla in buon italiano, con una cadenza stranamente meridionale, e gesticola muovendo le mani da lavoratore, che di tanto in tanto si trasformano in pugni. Oltrepassato un cancello, compare la sua “dimora”: un garage da 10 metri quadrati, condiviso con altre due persone, K.M. e F.F., immigrati marocchini con cittadinanza italiana, ambedue disoccupati.
Entrambi attendono la borsa lavoro dei servizi sociali. Tutti vivono in condizioni igieniche precarie, senza luce, senz’acqua e senza riscaldamento. I.M., una volta indicato il suo letto, si siede su un’asse e, con la testa tra le mani, sorride, amareggiato. Al congedo, i suoi occhi sperano. L’immigrato riflette una condizione di miseria alimentata dalla situazione economica generale, dall’indifferenza e dalla carenza di un appropriato sistema di welfare sociale.
Ci lasciamo con la promessa di un nuovo incontro. La stretta di mano è di nuovo forte.
Marco Viberti