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Colloquio con Franco Loi, maestro di Bere il territorio

«Nato a Genova e trasferitosi a Milano, Loi ha avuto la capacità di stringere un forte legame con il territorio che lo ospitava attraverso il linguaggio, senza mai sentirsi spaesato»: è con queste parole che Gianluigi Beccaria ha spiegato la scelta del poeta dialettale Franco Loi come Maestro di Bere il territorio di quest’anno. Saggista, critico e collaboratore del Sole 24 ore, Loi ha abbracciato il dialetto milanese e lo ha reso autobiografico e lirico, ma allo stesso tempo espressione dei luoghi e delle persone che lo circondavano come solo le parole di una lingua locale sanno fare.La premiazione dell’undicesima edizione del concorso letterario indetto da Go wine si è svolta sabato scorso nel teatro Giorgio Busca di Alba. La giuria ha presentato gli elaborati che si sono meritati la vittoria, aggiudicata, per la sezione dedicata agli studenti delle scuole superiori della provincia, ad Alessia Del Santo, studentessa del liceo classico Govone.

Franco Loi perché ha scelto di scrivere in milanese? «Non sono stato io a scegliere il milanese, bensì questo a scegliere me. A tredici anni ho iniziato a lavorare e, intorno a me, la gente diceva cose importantissime. Così, sentendo la necessità di scrivere e descrivere del mondo che mi circondava, mi sono accorto che non potevo far parlare quelle persone in italiano: ci sono frasi, espressioni e parole che solo il dialetto sa esprimere e che mi sono risultate intraducibili. E, al di là del significato, certe parole hanno un suono e unam usicalità propria, che sarebbe un peccato perdere e che danno ritmo alla poesia».

Pensa che i dialetti siano destinati a perdersi? «Assolutamente no. Ritengo che muteranno, così come la lingua italiana, continuamente. Semplicemente, il dialetto sarà sottoposto a un adattamento. Si pensi alla parola fomna, il cui significato è donna, che in italiano si usava nel ’500 e che è stata adattata al dialetto nel tempo. C’è uno scambio biunivoco tra i dialetti e l’italiano. Molte parole di uso quotidiano derivano dal linguaggio popolare».

Che cosa accadrebbe, secondo lei, se il dialetto acquisisse una nuova diffusione? Come inciderebbe questo sul divario, che ancora esiste, tra Nord e Sud Italia? «Quando la gente parlava in dialetto c’era, paradossalmente, più scambio tra persone di diverse regioni, più solidarietà e più dialogo. Ricordo quando a lavoro si dava scherzosamente del terùn a un collega napoletano, mentre ora magari lo si dice unicamente come insulto. Il dialetto inoltre non descrive solo una lingua, ma il carattere di chi abita un territorio, attraverso le sfumature delle parole, la cadenza e le espressioni. Comprendere un altro dialetto, quindi, significa conoscere la sua gente».

Negli anni ’30, ha saputo non sentirsi spaesato in un territorio che non era il suo. Oggi si discute, attraverso la proposta di un referendum, se concedere la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati. Sarebbe d’accordo? «Certamente. La cittadinanza italiana è indispensabile per chi nasce qui, non solo per una questione di diritti e inclusione dei nuovi nati, ma anche per l’integrazione delle famiglie. Un bambino, non sentendosi spaesato nel Paese in cui abita, sarà incentivato a rispettarlo, ad apprezzarlo e acomunicare con i suoi concittadini, magari invogliando anche i genitori a parlare l’italiano».

Chiara Cavalleris

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