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Stefano Zamagni: «Nuove strade per salvare il welfare»

Il presidente dell’Agenzia per le onlus alla Scuola di pace di Bra

Nell’ambito degli appuntamenti organizzati per celebrare il ventennale della sua fondazione, la Scuola di pace di Bra venerdì scorso ha ospitato Stefano Zamagni. Si tratta di uno dei più citati economisti del Paese, ordinario di economica politica all’Università di Bologna. Nel 2007 è stato nominato presidente dell’Agenzia per le Onlus, ente con funzioni di vigilanza e controllo in materia di associazioni no profit, e fra il 2007 e il 2009 è stato tra i principali collaboratori di papa Benedetto XVI per la stesura del testo dell’enciclica Caritas in veritate.
Quale sarà il ruolo dello stato sociale?
«Tutto dipende da quale concezione di welfare adottiamo, assistenzialista o abilitante. Secondo la prima concezione, che ha negli Usa il suo grande sostenitore, prima è necessario produrre sviluppo e poi si può pensare a spendere in sanità, pensioni, scuola e assistenza. In questo caso il welfare è diretto principalmente a quelle fasce di popolazione che sono fuori dal mercato. Nella seconda concezione si ha un ribaltamento della prospettiva: l’assistenza dello Stato è un diritto che spetta a tutti e che deve essere fonte di sviluppo. Solo seguendo questa strada, che consente alle persone di incrementare le proprie capacità, lo stato sociale potrà garantire sviluppo».
 In Italia qual è la concezione che viene seguita?
«Come spesso accade, gli italiani stanno un po’ di qua e un po’ di là. Rifiutiamo una visione assistenzialista perché la consideriamo velatamente razzista, ma non facciamo nulla per realizzare la seconda impostazione».
 E il Governo?
«L’attuale Esecutivo tecnico, a cominciare dal ministro Elsa Fornero, ha più volte sostenuto la necessità di contenere le spese in attesa di un incremento nello sviluppo».
 Come si può realizzare un welfare abilitante?
«Attraverso il meccanismo della sussidiarietà circolare, che prevede che lo Stato, il mondo delle imprese e quello delle associazioni interagiscano tra loro in modo sistematico sia nel momento della progettazione, sia nella fase della gestione. Ma non è facile».
 Perché?
«La politica teme di perdere il proprio potere, mentre la business community si rifiuta di pagare senza poter partecipare alle decisioni. E le associazioni si rifiutano di collaborare perché si ritengono i “duri e puri” che non vogliono contaminarsi con politici e imprenditori».
 Ma allora la partita è persa…
«Assolutamente no. Tra i due estremi dell’utopia e della distopia è sempre meglio seguire la prima. D’altro canto questo modello si sta realizzando a macchia di leopardo, soprattutto nelle realtà più piccole. Penso alle valli del Trentino o alla valle del Lidice nel bolognese».
 Con quali risultati?
«Un importante successo in campo sanitario grazie alla realizzazione delle “case della salute”. Si tratta di strutture dotate di strumenti diagnostici finanziate dalle imprese, che si collocano in una posizione intermedia tra i medici di base, che più di tanto non possono fare perché sprovvisti della necessaria attrezzatura, e gli ospedali, i cui costi sono sempre più insostenibili. Oggi la sanità non può più essere completamente a carico dell’Amministrazione pubblica. Un secondo risultato, molto sentito in Emilia visto che la regione vanta il più alto tasso di occupazione femminile del Paese, si è avuto sul fronte della conciliazione delle esigenze familiari e il lavoro attraverso l’adozione di un orario ampiamente flessibile, sia in entrata che in uscita. Ciò ha avuto positive ricadute anche sulle imprese, perché chi va a lavorare volentieri aumenta la produttività».
 Molti, soprattutto in Piemonte, non sembrano vederla in questo modo.
«Qualcuno dovrebbe dire a Marchionne che la Volvo da tempo adotta questo sistema e non per questo ha perso quote di mercato».
 In definitiva, che cosa bisogna fare?
«Ci vuole il coraggio di iniziare a intraprendere nuove strade».

 Roberto Buffa

foto Ansa

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