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Quando Mussolini soppresse i tribunali di Alba (per qualche anno), Saluzzo e Mondovì

Giovanni Vico

Il primo governo Mussolini, costituito all’indomani della marcia su Roma su incarico del re Vittorio Emanuele III, fu presentato il 16 novembre alla Camera. Ottenne la fiducia con 429 voti contro 116: votarono contro socialisti, comunisti, repubblicani e sardisti, 7 furono le astensioni (rappresentanti altoatesini e slavi). Votarono a favore non solo fascisti e nazionalisti (che da soli arrivavano ad appena 37 deputati), ma anche, con un tragico errore di valutazione, liberali di varia estrazione e popolari (con due dissenzienti, uno dei quali l’onorevole e avvocato albese Teodoro Bubbio). Mussolini aveva promesso di salvare l’Italia non solo dalla sovversione “bolscevica”, ma anche dalla crisi economica e dal debito pubblico. Per affrontare queste sfide chiese i pieni poteri (avrebbe proceduto per decreti e non per leggi) e collocò al Ministero delle finanze un docente di economia dell’università Ca’ Foscari di Venezia, Alberto De Stefani. Il professore, convinto neoliberista, aveva in più occasioni e articoli sviluppato la tesi secondo cui l’Italia aveva bisogno di una “restaurazione finanziaria e smobilitazione amministrativa”, cioè di ridimensionamento del bilancio statale, di tagli all’apparato pubblico con accorpamenti di strutture e di funzioni. Si cominciò sopprimendo il Ministero del Tesoro, trasferendone i poteri al Ministero delle finanze.

Alle Poste e alle Ferrovie furono date aziende autonome. L’azienda dei telefoni venne privatizzata a costi irrisori: poiché Giovanni Agnelli, a cui era stata offerta, la rifiutò non immaginando il futuro del settore, venne ceduta ad altri imprenditori torinesi, quelli della Società Idroelettrica Piemontese.

65 mila pubblici dipendenti, di cui metà ferrovieri, furono licenziati. «Basta con lo Stato postino e capostazione» era lo slogan di Mussolini. Oltre a ridurre la spesa pubblica era una ghiotta occasione per lasciare sul lastrico migliaia di “sovversivi” come Mario Mortara, consigliere comunale comunista di Saluzzo, segretario del catasto trasferito per rappresaglia a Modena e reo di non essersi presentato per tempo al nuovo capoufficio, perché ridotto a suon di botte in ospedale dagli squadristi locali subito all’arrivo in città, o come il capostazione di Cuneo Giuseppe Aimo, come il pari grado Isidoro Azzario, l’ex sindaco socialista di Bra Giuseppe Lenti, un gruppo di ferrovieri di Ceva e di Bastia, fra cui Giuseppe Culasso, rei di aver sostenuto lo sciopero “legalitario” dell’agosto 1922.

Poi si cominciò a parlare di soppressione dei piccoli comuni, giudicati incapaci di svolgere i compiti assegnati (che allora erano solo quelli demografici e poco altro) e soprattutto di abolizione dei tribunali circondariali, vale a dire quelli collocati in città non capoluogo di provincia, e delle preture mandamentali minori (il mandamento corrispondeva al collegio elettorale provinciale, le nostre sette città comprendevano almeno un mandamento-collegio, gli altri mandamenti mettevano assieme più comuni minori).

Teodoro Bubbio

Una simile ipotesi avrebbe colpito pesantemente la provincia di Cuneo, riducendone i tribunali da 4 ad 1. Altrove (Torino o Alessandria) venivano messe in discussione strutture singole (Pinerolo, Acqui, mentre Asti, semplice capoluogo di un circondario alessandrino, sotto l’ala protettrice del maresciallo Badoglio, era destinata di lì a poco a diventare provincia). Occorre dire che non vi fu grande mobilitazione nelle città interessate. Un po’ perché di simili tagli se ne era parlato in tempo di guerra e poi nel 1920 (proposta del guardasigilli Mortara), ma poi non se n’era fatto nulla. Un po’ perché Saluzzo, guidata da un sindaco avvocato, il liberalconservatore Gregorio Pivano, fratello di un deputato, era tutta concentrata nell’ennesimo scontro fa Comune e Cassa di risparmio per la gestione delle risorse economiche, e ad Alba l’amministrazione popolare del dottor Giovanni Vico era minacciata dai raid squadristici.

Solo a Mondovì vi fu una serie di iniziative ad opera dell’ordine degli avvocati, che sfociò in una proposta: accorpare a Mondovì il tribunale di Alba, dando così vita ad una struttura quasi provinciale (sull’altro versante bastava unire Saluzzo a Cuneo). Gli albesi fino ad allora si erano dimostrati inclini ad «astenersi da ogni discussione… in considerazione dei più alti interessi della Nazione, pur avendo ragione di dubitare seriamente se le economie che dalla soppressione di tutti i Tribunali Circondariali il Governo si ripromette, non siano di gran lunga assorbite e superate dalle spese incomparabilmente maggiori che sarebbero richieste per le trasferte dei testimoni, per i necessari aumenti di sezioni, di locali, di personale, nonché dai danni sia morali che economici gravissimi che verrebbero a risentirne le Città, da tempo immemorabile sede di tribunali, e gli uffici e gli interessi pubblici e privati che alla amministrazione della Giustizia si riconnettono sotto molteplici e svariatissime forme».

La proposta degli avvocati monregalesi di salvare il loro tribunale a spese di quello di Alba «di molto superiore per quantità di affari trattati» provocò nei colleghi albesi una veemente reazione. Così i presidenti degli avvocati e dei procuratori Federico Pagliuzzi e Giulio Cesare Moreno, d’intesa con il sindaco Vico, mettevano in piedi una serie di iniziative (ordini del giorno, convegni, contatti con i parlamentari della zona) per cercare di neutralizzare o ribaltare la proposta che veniva da Mondovì. Ma con le dimissioni del sindaco di Bra Bernardo Dallorto Alba perdeva il sostegno della principale città del circondario (Bra aveva allora 17 mila abitanti, Alba 14): il commissario prefettizio Ottavio Casana, da zelante funzionario dando per indiscutibile l’accorpamento dei tribunali circondariali con quello provinciale, con una semplice occhiata agli orari ferroviari, decideva che per Bra era meglio chiedere il passaggio alla giurisdizione… di Torino. La richiesta venne accolta ben volentieri dal Ministero e, mentre la decisione di accorpare i piccoli comuni veniva rinviata (vi si procederà qualche anno dopo, quando in realtà con la nomina dei podestà verranno aboliti tutti i consigli comunali), il Regio decreto 24 marzo 1923 n. 601 ridisegnava la circoscrizione giudiziaria del Regno, sopprimendo le preture di mandamento e ben cinquantotto tribunali di circondario. Saluzzo, Alba e Mondovì erano nel mazzo.

La decisione diveniva operativa il 1° gennaio 1924. Iniziavano le vendite degli arredi non traslocabili a Cuneo e i comuni che come Saluzzo avevano a suo tempo comprato un immobile ad uso degli uffici giudiziari (palazzo Solaro di Monasterolo in via Griselda) dovevano porsi il problema del loro utilizzo, mentre erano chiamati a concorrere alle spese di affitto sostenute da Cuneo per il tribunale provinciale.

I disagi negli spostamenti cominciarono ben presto a farsi sentire. Questi erano particolarmente acuti per l’albese: la maggior parte dei cittadini doveva dalle Langhe o dal Monferrato scendere fino ad Alba, quindi recarsi in treno a Cavallermaggiore e qui attendere le coincidenze per Cuneo. Si trattava di viaggi mai inferiori alle cinque ore, in un’epoca in cui neppure tutti gli avvocati possedevano ancora un’automobile.

Così il sindaco Vico pensò a nuove iniziative mirate a far risorgere il tribunale. Non si mise in primo piano (la sua amministrazione era bollata di antifascismo) né mobilitò il foro locale: fra gli avvocati di Alba c’erano personaggi invisi ai fascisti ancor più del sindaco (oltre al citato Bubbio, Riccardo Roberto, già vicecapogruppo socialista alla Camera e poi candidato comunista). Si affidò ai buoni uffici del conte Gastone Guerrieri di Mirafiori, la cui adesione al regime era indiscussa, anzi già nel 1919 aveva con Tancredi Galimberti e Francesco Pivano promosso una lista “agraria” che si poneva a destra dei liberali. Il lavorio di lobbying del conte-deputato e la costatazione della eccessiva distanza di Alba da Cuneo portarono nel 1932 alla ricostituzione del tribunale e al rientro sotto la giurisdizione albese dei piccoli comuni di confine che erano stati uniti ad Asti e soprattutto della recalcitrante Bra.

Anzi parve ad un certo punto che seguendo il filo del ragionamento ferroviario il circondario di Alba dovesse estendersi fino a Cavallermaggiore e Moretta (le due cittadine allora disponevano di una linea di treni che le collegava), inglobando, perché no?, Racconigi. Le proteste di Saluzzo furono immediate. L’antico circondario marchionale era, dopo Cuneo, il più ricco di cause, rispettivamente 76 e 145 nel 1929 e 1930 contro le 44/68 di Alba o le 45/53 di Mondovì, era la sede di un grande carcere, la Castiglia, del manicomio, usato allora spesso come luogo di detenzione ancorché impropria, delle due più grandi fabbriche della provincia (Cartiera Burgo e Snos), ambienti di paventata sovversione sociale e politica, nelle vallate si stavano costruendo i più grandi impianti idroelettrici della regione, fonte di infinite cause civili soprattutto fra i titolari delle concessioni ecc. Questi argomenti ebbero come unico effetto quello di bloccare l’allargamento della giurisdizione albese. Non ottennero la riapertura del tribunale di Saluzzo. Per questo (stesso discorso vale per Mondovì) bisognerà aspettare la Liberazione, anzi qualche anno dopo.

La rinascita dei tribunali di Saluzzo e Mondovì avvenne in un tempo  in cui le condizioni economiche e finanziarie dell’Italia erano molto peggiori di adesso. Erano gli anni della politica di austerità voluta  dal Governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi. Tuttavia  all’amministrazione  della giustizia non si lasciavano mancare i fondi.  Come non si invocarono mirabolanti risparmi di spesa per bloccare la  ricostituzione di comuni come Pocapaglia, Barbaresco o Piobesi, bensì  si fece riferimento alla volontà di autodeterminazione delle comunità  locali. Quanto alle ferrovie, il 60% delle locomotive era stato messo  fuori uso dalla guerra, il 25% dei binari distrutto da bombardamenti o  sabotaggi. Non si trattava di rami secchi, bensì di rami spezzati, in  alcuni casi di tronchi divelti. La strada intrapresa fu quella della  ricostruzione. Altri tempi, altra Italia.

Livio Berardo

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