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I dolori dell’anima

Sono grato alla cooperativa Alice per la bella serata di mercoledì 7 novembre in San Domenico. Ascoltare Umberto Galimberti è sempre un evento e il secondo relatore, lo psicologo Francesetti, non è stato da meno. Ne ho tratto stimoli importanti a riflettere. Mi ha colpito il tono disincantato delle analisi di Galimberti, che hanno suscitato interventi e domande di “speranza” da parte del pubblico. Vorrei far partecipi anche altri di tre interrogazioni che mi sono rimaste.

1. È proprio vero che la razionalità occidentale si risolve nei suoi esiti nichilistici, che Galimberti vede in modo negativo (manca il fine, manca il perché, i valori si svalorizzano)? Nessun autore, nessuna filosofia gli sembra in grado di trovare una via d’uscita. C’è in realtà tutto uno sforzo di pensiero contemporaneo che esce ormai da questa razionalità e che è possibile praticare (cui Francesetti con finezza ha fatto riferimento, nei cenni sulla bellezza, la trascendenza, l’alterità). È un pensiero capace di far emergere l’umano e ridonare capacità di cogliere il senso; di indicare l’uscita da quel mondo tecnocratico che Galimberti giudica onnipresente e, mi pare, onnipotente.

2. In secondo luogo mi sono trovato a interrogarmi sulla cancellazione dell’anima, denunciata da Galimberti, e più ancora, sulla sua riduzione a dimensioni “irrazionali”. Mi pare che la parola “anima” rechi l’impronta di una millenaria esperienza di sé da parte degli uomini e nasconda il senso dell’originalità umana. L’anima, se vogliamo ancora usare questa parola, è più grande di quanto la pensa Galimberti. C’è una ricchezza nell’umano che è capace sempre di ridestarsi ed essere ridestata, come suggerivano i suggestivi spunti dell’altro relatore, quell’humanum così profondo e incancellabile in noi, che si ridesta nella relazione umana. È da questo humanum che possiamo ripartire, dalle sue profondità creatrici. Non c’è solo il tramonto dell’Occidente, ci può essere anche l’alba. La caduta dell’impero romano fu percepita come la fine del mondo, eppure da lì, si generò una nuova civiltà.

3. Infine, mi pare che sia mancata una sottolineatura, che credo essenziale, quella della dimensione etica e della responsabilità. Si individua il male, lo si denuncia (in forza di un discernimento etico) e stranamente ci si rassegna, come a qualcosa di epocale e inevitabile. L’uomo è tale perché fin dall’inizio, dice la Bibbia gli è posto davanti il bene e il male. La rassegnazione è una forma di complicità col male e con la sua forza distruttrice della vita, quella sua forza di cui ci lamentiamo e che ci fa patire così tanto. Quello di cui c’è bisogno è riprendere dentro di noi, al fondo dell’humanum, la forza etica, per passare dal fatalismo allo sdegno e infine alla responsabilità di ricreare un mondo a misura dell’uomo. Trovo che Galimberti offra lucide analisi, ma non apra prospettive. Per parte mia – ho all’incirca l’età di Galimberti – vorrei dedicare gli ultimi anni a scoprire che ci sono orizzonti e sensi più larghi per vivere, che si può pensare e lottare per creare un mondo dove ognuno possa essere accolto e vivere. Vorrei offrire alla nuova generazione gli strumenti per decifrare il mondo e la fiducia che si può imparare a esistere in maniera creativa e non distruttiva.

Don Piero Racca

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