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IMMIGRATI undici su cento

QUI ALBA La voce di don Paolo Rocca – direttore del centro Migrantes Bakhita di Alba, che si occupa di ricevere l’immigrato e di offrire accoglienza e sostegno – è preoccupata. Sa che la recessione non pugnala le caste, ma punge i bassifondi, i reietti, gli svantaggiati. Le prime vittime sono loro, gli stranieri. E i primi sentori del degrado cominciano a farsi sentire. «Anche nell’albese le cose si mettono male: la crisi del lavoro e il precariato sfaldano molte famiglie immigrate. Alcune di loro sono costrette a rivolgersi ai servizi sociali, altre a tornare in patria», racconta don Paolo. I numeri sono emblematici: negli ultimi anni, presso Il campo di via Santa Barbara (adibito all’accoglienza di chi non ha casa) hanno abitato quasi 650 ragazze straniere provenienti da una miriade di geografie: Romania, Albania, Perù, Polonia, Marocco, Tunisia. In un’altra struttura, il St. Mary house, alloggiano al momento cinque persone ma negli ultimi sei anni ne sono passate almeno 50. E al St. Joseph house – altra casa per chi non ce l’ha – abitano due persone. Una vera babele di storie mancate ed esistenze piegate sembra risiedere nel cuore urbano di Alba.

La componente straniera albese mostra numeri impressionanti. La città, aperta all’influenza del processo di globalizzazione, sembra maturare anno dopo anno una vera identità multiculturale. Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre 2011, gli stranieri erano a 3.759, dato in aumento di 203 rispetto all’anno precedente, circa l’11 per cento del totale della popolazione: molto di più rispetto alla provincia (vedi articolo a lato). La provenienza dominante è la Romania, con 1.399 persone. Seguono il Marocco (517), l’Albania (365), la Macedonia (347), la Tunisia (168), la Cina (108), la Bulgaria (95), la Bosnia (72), la Moldavia (70), il Senegal (65), il Brasile (41), le Filippine (36) e la Repubblica Dominicana (18).

Ma accanto ai numeri si agitano impressioni, idee, emozioni. Abbiamo provato a replicare il sondaggio Istat (vedi l’articolo nella pagina accanto) sulla rappresentazione che gli albesi hanno degli stranieri. Attraverso la pagina Facebook www.facebook.com/gazzettadalba  – abbiamo chiesto un parere scevro da ogni condizionamento. Vediamone alcuni: Alessia Jwow si fa portavoce di un sentimento oppositivo latente, che preferisce reprimere da sé. «Evito di commentare, se no scateno un dibattito», dice con amarezza e lasciando intendere un certo astio. Marina Rava risponde: «I bigotti del luogo riusciranno mai ad aprire la mente? Oppure continuano, ahimé, a diventare leghisti? Mi viene in mente una persona che educa il figlio al razzismo. Non dico altro. Credo serva altro tempo per completare il percorso di integrazione». Sebastian Vasila, che concede un rassegnato lamento: «Gli italiani pensano le stesse cose che pensavano gli americani 100 anni fa degli italiani immigrati in America».E Matteo Martinoglio apre a una più conciliante prospettiva, basata sull’immedesimazione reciproca: «Per me va bene chiunque, purché rispetti la cultura del posto e soprattutto le leggi, come faccio io quando visito un altro Paese». Infine, Ugo Rinaldoz s’addentra nella questione civica: «Gli emigrati che arrivano ad Alba – o meglio in Italia – con la vettura, devono cambiare targa. Così pagano le multe come paghiamonoi. Vogliono essere come noi, parcheggiano ovunque, però le multe per loro non arrivano mai».

Insomma, sembra serpeggiare in città come altrove un sentimento ambivalente, fatto di aperture e chiusure, disponibilità all’incontro e arroccamenti.

Matteo Viberti

Non sono NUMERI, sono persone

QUI ITALIA Non sono numeri: il titolo del ventiduesimo dossier sull’immigrazione, presentato nei giorni scorsi da Caritas-Migrantes, comunica la delusione di chi sovente è accostato a una cifra matematica e vede neutralizzata la propria umanità, di chi è cancellato dai discorsi sociali come persona, ma viene identificato alternativamente come risorsa oppure problema, come aggiunta oppure diminuzione. C’è un lessico “quantitativo” con cui ci si riferisce agli immigrati, un idioma che poco a poco spoglia lo straniero della reale identità e lo associa a un numero statistico.

Il rapporto ha stimato che gli immigrati regolarmente presenti in Italia sono 5 milioni e 11 mila, circa 43 mila in più rispetto al 2010. I problemi principali spiccano sul fronte politico: anche se sono stati rilasciati all’estero 231 mila visti per l’inserimento stabile in Italia, nel 2011 sono scaduti, senza essere più rinnovati, 263 mila permessi di soggiorno, pregiudicando il diritto alla permanenza nel Paese dei relativi titolari.

Sul versante lavorativo, invece, gli stranieri si confermano pilastro strutturale: gli occupati sono circa 2,5 milioni, un decimo degli occupati totali. Consistente è anche il numero dei titolari d’azienda, aumentati di 21 mila, attestandosi sulle 249 mila unità. La crisi, però, non ha mancato di farsi sentire: nella crescita del numero dei disoccupati (310 mila), nella diminuzione del tasso di occupazione (62,3 per cento) e nelle condizioni di vita sempre più critiche.

Per non fermarci ai numeri abbiamo tentato di scoprire quali sono le idee degli italiani correlate alla massiccia presenza straniera. Perché, percentuali a parte, sono le emozioni a condizionare la reale convivenza. Secondo il sondaggio pubblicato pochi mesi fa dall’Istat, il 59,5 per cento afferma che nel nostro Paese gli immigrati sono discriminati. In particolare, la maggior parte degli intervistati ritiene difficile per un immigrato l’inserimento nella nostra società (80,8 per cento). Addirittura, il 2,4 per cento lo ritiene impossibile.

I dati sembrerebbero parzialmente confermare i risultati del sondaggio che Gazzetta ha lanciato sulla rete (vedi articolo a lato). Le spinte conservatrici della provincia risultano, però, diluite a livello nazionale: il 60 per cento degli italiani ritiene che «la presenza degli immigrati è positiva, perché permette il confronto con altre culture». Altrettanti (63 per cento) sono d’accordo con l’affermazione che «gli immigrati sono necessari per fare il lavoro che gli italiani non vogliono fare». Ancora percentuali emblematiche: l’aumento di matrimoni e unioni miste è considerato positivamente dal 30,4 per cento, a fronte di un quinto circa (20,4 per cento) che considera negativamente il fenomeno. Se però è la propria figlia a sposare un immigrato la situazione cambia. Per esempio, il 59,2 per cento degli intervistati avrebbe molti problemi e il 25,4 per cento qualche problema se fosse un rom.

Matteo Viberti

LA STORIA – Leyla, 56 anni, da Torino ad Alba.  La crisi le ha rubato il sogno di aprire un asilo in Perù

La sua storia Leyla ce la racconta a patto che non pubblichiamo il suo vero nome. Non perché abbia qualcosa da nascondere. Solo per non «apparire una che vuole essere famosa, apparire, tutto qui». Leyla ha 56 anni e arriva dal Perù: è in Italia da quattro anni. «Ho lavorato a Torino, poi con la crisi economica ho perso il posto e sono arrivata ad Alba. La mia laurea non vale qui. Così, ho dovuto arrangiarmi. All’inizio ho cominciato come badante presso una famiglia. Mi hanno accolta come una figlia, stavo davvero bene. Poi, anche quel lavoro è terminato». La capacità di adattamento di Leyla e l’ostinazione nel radicarsi in un contesto diverso da quello natio l’hanno portata a iscriversi a un corso per conseguire il diploma di operatore socio-sanitario.

Poi, il tirocinio presso una casa di riposo albese. «Mi hanno offerto un lavoro. Faccio turni di otto ore: mattino, pomeriggio, notte. Ma lo stipendio non basta a pagare l’affitto. Ad Alba le cifre sono davvero elevate. Così mi sono rivolta alla Caritas». Oggi Leyla abita da sola presso l’appartamento St.Jospeh house, gestito dal centro Migrantes. È felice per il lavoro, ma la solitudine la attanaglia. «Ad Alba non ci sono peruviani e poi ho poco tempo per me stessa. Mi sento molto sola, mi piacerebbe avere qualcuno con cui parlare quando torno a casa. Se dovessi esprimere un desiderio? Tornare in Perù».

Proprio in America latina Leyla stava costruendo una vita di progetti e insegnamenti: è stata maestra d’asilo per venticinque anni. Poi ha deciso di crearlo lei, un asilo. Con tutti i suoi risparmi. Ma è arrivata la crisi e ha dovuto chiudere i battenti e venire in Italia. Leyla ci saluta confidandoci che, appena potrà, tornerà dalla sua famiglia. La congediamo con la sensazione che di storie simili, di quotidiana resistenza e lieve disperazione, ce ne siano a migliaia nascoste nella città. Storie di chi non dispone di reti sociali o risorse economiche sufficienti a programmare interventi. Sono storie di sogni sfogliati da una contingenza economica asfissiante, da scelte discutibili che costringono a rivolgersi ai servizi sociali e a soccorsi assistenziali. Leyla ha un conto in sospeso con chi le ha sottratto il sogno dal cassetto e dalla sua voce lo capiamo, che se lo andrà a riprendere a qualunque costo.

m.v.

Senza, Cuneo non ce la fa

COLLOQUIO Gli stranieri residenti in provincia di Cuneo sono 56.166, il 9,5 per cento della popolazione. Abbiamo incontrato Roberta Ricucci, docente della Facoltà di scienze politiche di Torino e curatrice del dossier Caritas-Migrantes.

Come vede la popolazione straniera che abita nella Granda?

«A Cuneo, più che in altre aree, l’immigrazione sta affrontando un processo di massiccia stabilizzazione. Si pensi che il 58,5 per cento dei soggiornanti possiede un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Eche, solo nell’ultimo anno, sono stati rilasciati oltre mille nuovi permessi. Infine, i minori nelle scuole sono in forte incremento. Significa che l’identità straniera della Granda è in espansione».

Che ne pensano i cuneesi?

«La crisi economica, che sta coinvolgendo anche Cuneo, potrebbe riattivare paure e competitività che, negli ultimi anni, sembravano sopite. Ad esempio, l’assenza di lavoro potrebbe orientare molte donne italiane di 40-50 anni verso il settore dell’assistenza agli anziani e creare in questo modo concorrenzialità tra badanti autoctone e straniere. Considerando poi che i disagi dovuti alla recessione colpiscono perlopiù gli immigrati, si potrebbe anche verificare un fenomeno inatteso: molti di loro potrebbero intraprendere un nuovo percorso migratorio, e lasciare la Granda».

Che cosa accadrebbe in questo caso?

«Il settore agricolo del cuneese si appoggia per la maggior parte alla manodopera straniera. Anche il comparto imprenditoriale e manageriale si dimostra sempre più multiculturale nei suoi connotati. Perciò, l’economia della Granda subirebbe gravi contraccolpi. Senza scordare il discorso demografico: la popolazione locale è sempre più anziana e incapace di autorinnovarsi. In questo senso, la componente straniera garantisce vitalità e crescenti risorse».

m.v.

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