Il corpo di Dio

Riflessioni domenicali in occasione del mese vocazionale

Abbiamo perso la profondità umana del corpo e, con essa, la possibilità di dare una forma vocazionale alla vita. Strano destino quello del corpo nella nostra epoca! Da un lato viene curato all’eccesso, quasi come un idolo, mummificato perché non invecchi, non si rovini, e sia sempre al meglio; dall’altro, però, viene di fatto considerato come un vuoto meccanismo biologico, senza cuore né sentimenti. Non solo, ma nella cultura diffusa della realtà virtuale pare che il superamento del peso del corpo diventi una conquista: si possono stringere migliaia di “amicizie” senza incontrarsi mai, evitando ogni tipo di corpo a corpo reale.

Eppure noi siamo il nostro corpo, che è il contorno della nostra libertà, il luogo significativo dei sentimenti e degli affetti, dei gesti umani e della cura reciproca che ci dà respiro e fiducia. È attraverso il corpo che il mondo entra in noi e noi ci educhiamo a diventarne responsabili, e non solo consumatori e sfruttatori. Il corpo è la cassa di risonanza delle parole e dei legami che ci coinvolgono, ci feriscono, ci costruiscono come uomini e donne maturi. È sullo spessore della pelle che si prova il dramma della sofferenza, propria e altrui, per imparare ad affrontarla e ad aiutare altri a non viverla da soli, o senza speranza.

Ebbene sì! Non appena ci si mette in ascolto del corpo lo si riconosce abitato dallo spirito, e lo spirito rimarrebbe muto senza i sensi, i colori e le forme del corpo. Il cristianesimo, infatti, non è l’annuncio dell’anima immortale e della fuga dal mondo, ma del Dio che si fa corpo e rimane corpo fino alla fine, fino a pagare di persona, fino alla risurrezione dei corpi.

È la notizia del Corpo del Figlio, che racconta Dio, il Padre, imparando da ciò che vive e patisce sulla sua pelle: le parole, i gesti, gli incontri, il cibo condiviso, il perdono, il coraggio e la giustizia della dedizione e della gratuità. Questo è Dio, fin dall’inizio e per sempre. Nel suo Corpo tra noi. E se egli si fa corpo, allora non può diventare proprietà privata di qualcuno, chiuso e difeso dentro un recinto sacro e distante: si consegna a tutti, è continua apertura che raggiunge tutti, accettandone le conseguenze, nel silenzio e nella discrezione di un corpo fragile, vulnerabile. Basta un attimo e ogni volta che qualcuno, dentro e fuori la Chiesa, dà il suo corpo per la vita di altri, tocca il Corpo di Dio e vive di lui.

Al Giordano, mettendosi in fila come tutti e ricevendo il Battesimo da Giovanni (Luca 3, 15-16.21-22), Gesù vive questa prima esperienza umana fondamentale che il corpo annuncia e manifesta: la consapevolezza di essere preceduti, di non essere noi all’origine di noi stessi, di avere un limite come condizione di apertura non invidiosa agli altri. Nulla è più assurdo e disumano dell’espressione: “Mi sono fatto da solo, non ho limiti, non ho bisogno di nessuno!”. In una parola sola, Gesù inizia a sperimentare il suo essere Figlio, amato e custodito dall’amore del Padre.

Ecco il primo segreto, il primo “tocco” liberante di Dio: ogni vocazione, come ogni passo umano, nasce così, quando nel limite del nostro corpo percepiamo una benedizione, non una minaccia, e impariamo a riconoscerci figli, abbandonando ogni mortificante delirio di onnipotenza per metterci in ascolto fiducioso e riconoscente di chi ci precede. Che grande tesoro il nostro corpo! Corpo spirituale, corpo credente! Abitato dal Figlio di Dio e attraversato dal suo respiro, dal suo Spirito, perché vibri, nel suo limite e nel suo spessore, di quell’amore che è all’origine di tutti noi, figli nel Figlio.

Ogni vocazione, prima di tutto il resto, è risposta appassionata a questo annuncio, manifestato e vissuto nella nostra stessa corporeità.

Don Gianluca Zurra

 (1, continua)

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