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L’ombra del nero sul lavoro

L’INCHIESTA Esiste una macchia grigia che si espande a discapito della collettività: il lavoro sommerso. Cresce in tempo di recessione, diventa la paradossale arma di dipendenti e datori di lavoro per fronteggiare le difficoltà. A lungo termine, però, diventa la causa della criticità.

Spiega Massimiliano Campana, segretario generale della Cisl di Cuneo: «Nel 2012, su 244 mila aziende visitate nel Paese, l’Ispettorato del lavoro ha individuato circa centomila lavoratori completamente in nero, sconosciuti al fisco e al sistema previdenziale. Anche in provincia di Cuneo assistiamo, negli ultimi anni, a una crescita del sommerso. I lavoratori fantasma, oltre a danneggiare la collettività (dato che non pagano contributi ed evadono il fisco), danneggiano sé stessi, perché lavorano senza tutela: contributi pensionistici, ammortizzatori sociali, assicurazione sanitaria. In mancanza di occupazione, il dipendente è disposto ad accondiscendere a qualsiasi condizione». Anche all’assenza di contratto.

In Piemonte nel 2012 gli ispettori del Ministero hanno passato al setaccio 5.282 aziende: circa i due terzi (oltre il 60 per cento) di queste realtà presentavano anomalie. Nel 2011 l’incidenza di aziende irregolari era pari a 4 su 10, ovvero il 40 per cento: significa che il sommerso cresce in misura proporzionale alla recessione. In particolare, su 2.061 aziende (il 39 per cento di quelle ispezionate) sono state accertate situazioni anomale su 4.873 lavoratori, con un tasso di irregolarità (rapporto tra occupati irregolari e totale occupati) pari al 36 per cento. Ben 1.272 lavoratori (ovvero uno su dieci) sono risultati totalmente in nero. Le principali violazioni erano relative all’orario di lavoro (1.493 casi), alla sicurezza (824) e all’illecita intermediazione di manodopera (il cosiddetto caporalato con 590 lavoratori coinvolti).

Sono stati individuati 327 rapporti di lavoro autonomo fittizi (i lavoratori sono risultati di fatto subordinati). Sul totale dei dipendenti irregolari, il mancato pagamento di contributi previdenziali Inail da parte dei datori superava gli 8,4 milioni.

La quota di lavoro fantasma che sfugge ai controlli rimane alta (vedi articolo a lato). Secondo il rapporto pubblicato da Almalaurea il 13 marzo, compiuto su oltre 64 atenei universitari e 400 mila studenti, quest’anno hanno cominciato a lavorare in nero il 12,5 per cento dei laureati. Ragazzi usciti dalle facoltà di medicina, giurisprudenza, architettura, farmacia, chimica o veterinaria. Considerando tutte le altre facoltà, la percentuale s’impenna. Se è vero che il lavoro nero consente la minima sussistenza (per giovani altrimenti costretti a dipendere dalla famiglia) e funziona da struttura dell’economia in periodo di sfaldamento generale, allo stesso tempo toglie diritti al lavoratore.

Matteo Viberti

 Centinaia di posti a rischio

Non è soltanto il “che cosa” accade, ma il “come”. Il mondo della cooperazione sociale non soffre solo per imancati finanziamenti: gli operatori (che ogni giorno si prendono cura di disabili, tossicodipendenti, pazienti psichiatrici) sono intrappolati dal timore della disoccupazione, gli amministratori costretti a genuflettersi alle banche, gli utenti a subire i tagli. Il rischio è che l’utenza – i deboli – si ritrovi sprovvista di assistenza, costretta ad abbandonare le strutture e tornare dalle famiglie, nella maggior parte dei casi non equipaggiate ad affrontare tali oneri di cura. Le cooperative hanno persino scritto una lettera ai dieci saggi scelti dal Presidente della Repubblica, invocando immediato aiuto e risorse per il welfare. Abbiamo cercato di capire che cosa accade, ascoltando le voci dei protagonisti.

«La situazione è inquietante », ci ha spiegato Palmo Dellapiana, presidente della cooperativa sociale Insieme, che con 19 operatori gestisce oltre 100 utenti: «La Regione è in ritardo di un anno nei pagamenti, con un debito pari a circa 250 mila euro. Per ora siamo riusciti a garantire gli stipendi, ma non sappiamo se arriveremo fino a giugno». Nel tentativo di rimanere a galla, la cooperativa ha dovuto rivolgersi alle banche, accendendo mutui con tassi di interesse elevati. Prosegue Dellapiana: «Dopo il mutuo, se la Regione non dovesse rimborsare le fatture, non potremo più accendere prestiti. Dunque, non potremo retribuire i dipendenti. Si respira preoccupazione».

La cooperativa Alice sembra passarsela ancor peggio. Comeciha spiegato il direttore Mauro Giacosa, «ci stiamo abituando ad abitare un momento storico privo di certezze. La nostra cooperativa ha circa cento dipendenti e 80 utenti, senza contare le centinaia di ragazzi che seguiamo sul fronte scolastico. Abbiamo bloccato il pagamento delle tredicesime ai dipendenti, a cui abbiamo anche chiesto di rinunciare a una mensilità entro i primi mesi dell’anno. Per quattro mesi ho deciso che percepirò uno stipendio tagliato del 50 per cento. Tutti contribuiscono al bene collettivo». Emilia Arione, vicepresidente del consorzio Sinergie sociali, che racchiude sette cooperative, spiega: «Non ci arrendiamo. Abbiamo ottenuto un fido da 500 mila euro: se non dovessimo riuscire a restituirli, beneficeremo di una copertura dell’80 per cento da parte di Finpiemonte. Ciò non toglie che, nell’ultimo anno, abbiamo pagato interessi passivi alle banche per almeno ventiquattro mensilità di stipendio. La Regione ci deve circa un milione. Se i finanziamenti non venissero sbloccati sarebbe un disastro».

m.v.  

Le cooperative senza terra

 Vediamo come funziona, se esiste, la parte sommersa di un settore produttivo e occupazionale fondamentale per l’albese: l’agricoltura. Franco Ferria guida la FaiCisl della Granda. _

È vero che il settore agricolo è uno dei maggiori generatori di lavoro nero?

«Anche se si tratta di un fenomenoimpossibile da quantificare, potremmo dire che il lavoro nero rappresenta un pilastro strutturale del mondo agricolo nostrano. In tutta la provincia di Cuneo, secondo la nostra esperienza, esiste solo un’azienda agricola “completamente regolare”. Ovvero che prevede forme contrattuali prive di qualsiasi quota di nero per i propri dipendenti. Insomma, in via ipotetica, potremmo dire che, sebbene in forma diluita e “distribuita”, in provincia il sommerso in agricoltura raggiunge il cento per cento (cifre enormi considerando che nella Granda esistono circa diecimila lavoratori agricoli e 2.200 aziende). In pratica, il sommerso coinvolge in minima parte ogni singolo lavoratore». _

Che cosa intende dire?

«Ad esempio, alcune ore di straordinario possono essere pagate in contanti al di fuori del contratto. È un’irregolarità minima, ma effettiva. La vera piaga però sono le cooperative senza terra. Il lavoratore apre una partita Iva e “fonda” una cooperativa agricola (operazioni relativamente semplici dal punto di vista burocratico) e si fa assumere non come lavoratore dipendente, ma come libero professionista. Per il datore di lavoro questa forma contrattuale è molto conveniente, perché per i primi 12 mesi (prolungabili fino a 24) di esistenza una cooperativa agricola non deve pagare i contributi previdenziali. Dopo questo periodo di tempo, il dipendente“ mascherato” può far fallire la cooperativa e aprirne un’altra. E la giostra ricomincia ».

m.v.

 Il 60 per cento naviga sommerso

Gerlando Castelli, segretario cuneese di Filca, il sindacato degli edili Cisl, da dieci anni combatte contro la diffusione del lavoro nero.

È vero che il lavoro sommerso rappresenta una delle piaghe principali del settore edile, Castelli?

«Nella Granda il livello di lavoro nero, o lavoro mascherato, è preoccupante. Il problema non è il sistema di appalti, che è limpido e trasparente. Ma quello dei subappalti. C’è concorrenza spietata tra aziende, una continua gara a chi offre servizi a prezzi più contenuti. Per non essere esclusi è necessario contenere le spese interne all’attività, ovvero pagare una parte dei lavoratori in nero».

Quali espedienti si possono trovare per abbassare i costi del lavoro?

«Un metodo è assumere un dipendente, poi licenziarlo, ad esempio per “mancanza di lavoro”. Dopo 15 giorni l’azienda riassume il lavoratore come “socio partecipante”. Viene attribuita al “neoassunto” una percentuale dello 0,01 per cento del fatturato dell’attività dell’impresa. In sostanza, la ditta non paga alcun contributo, il lavoratore non gode di tutele o ammortizzatori sociali. Formalmente è socio dell’azienda, nei fatti un lavoratore subordinato senza alcuna protezione. Percepisce uno stipendio ordinario, dunque non si lamenta, non denuncia alcuna irregolarità perché spinto dalla necessità di denaro. A volte risulta perfino ignaro dell’escamotage studiato dai datori di lavoro. Scopre tutto alla fine, quando viene licenziato oppure lasciato a casa. Un altro metodo di elusione fiscale sono i cosiddetti voucher: modalità di pagamento non consentite, perché non prevedono il versamento di tutti i contributi previdenziali ».

Passiamo ai dati concreti. Può quantificare il fenomeno del lavoro sommerso a livello provinciale?

«Abbiamo 5.500 lavoratori regolarmente iscritti in Cassa edile. Secondo i controlli effettuati e la nostra esperienza soggettiva, potrebbero esistere almeno altri duemila lavoratori in nero, esclusi dal sistema, invisibili alla previdenza. In pratica, il 60 per cento del settore edile in provincia di Cuneo potrebbe funzionare in modo “sommerso” ».

m.v.

Bianco: Proviamo a reagire alla crisi

Parliamo con Alberto Bianco, psicologo e coordinatore dei servizi della cooperativa Progetto Emmaus.

Come va, Bianco?

«La cooperativa continua a essere in affanno. Si soffre per carenza di liquidità a causa dei tempi lunghi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. A fronte di un buon bilancio 2012, abbiamo dato fondo a tutte le riserve: ogni mese si deve aspettare fino all’ultimo giorno utile, bilanciando entrate e uscite con la banca per pagare gli stipendi. Abbiamo aderito con fiducia all’iniziativa “sbloccacrediti” di Finpiemonte. Il primo trimestre del 2013, però, ci consegna una fotografia che evidenzia uno scenario di progressivo arretramento. Non ci sono state nuove ammissioni nei servizi residenziali gestiti dalla cooperativa. La prospettiva è di un anno duro».

Cosa fate per reagire?

«La situazione mette in crisi la capacità d’investire, in un momento in cui sarebbe strategico diversificare i servizi. Questo perché, nel cambiamento del welfare, abbiamo bisogno di innovazioni di processi e servizi. Per cooperative come Progetto Emmaus è fondamentale iniziare a superare il concetto di “mono-committenza” da parte del pubblico e immaginare altri orizzonti, diversificando l’offerta. Questo processo ci spinge a progettare, ipotizzando alcune trasformazioni o conversioni».

Come cambia in periodo di recessione il nucleo di mutualità, vero fondamento di una cooperativa?

«È questo il momento in cui riscoprire forme nuove per declinare la mutualità e attivare l’essere socio, lavorando sull’appartenenza e su strumenti di solidarietà interna: tra colleghi, con gli utenti e con i familiari, con le altre cooperative e gli attori del welfare locale».

m.v.

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