Il procuratore Bruno Caccia a 30 anni dall’omicidio

CERESOLE Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario dell’uccisione di Bruno Caccia e il Comune di Ceresole vuole ricordare questa grande persona con una serie di iniziative. Si partirà giovedì 30 maggio, alle 11, nella chiesa della Madonna dei prati, con un incontro rivolto ai ragazzi delle medie che avrà per protagonista Paola Caccia, figlia di Bruno. Il secondo appuntamento è previsto per venerdì 28 giugno, alle 21, sempre nella chiesa della Madonna dei prati, dove si terrà un dibattito animato dal procuratore Giancarlo Caselli, Paola Caccia, Piermario Demichelis e Carlo Giuseppe Rossetti, professore all’Università di Parma e membro dell’associazione “Sulle regole” fondata da Gherardo Colombo.

Sul sito istituzione del Comune di Ceresole, raggiungibile cliccando QUI, è stata pubblicata la presentazione di Bruno Caccia curata da Alberto Lusso e dagli studenti del liceo scientifico “Giuseppe Peano” di Cuneo. Il documento è scaricabile gratuitamente. Gazzetta d’Alba si è sempre occupata con grande attenzione del caso di Bruno Caccia e ora vuole onorare la sua memoria pubblicando gli articoli più significativi apparsi sulla testata albese negli ultimi anni.

Paola Caccia: Non è ancora emersa tutta la verità

A trent’anni dall’uccisione di mio padre, non è ancora emersa tutta la verità, non tutti gli elementi hanno ricevuto la dovuta attenzione». Questa la denuncia di Paola, figlia del magistrato Bruno Caccia, assassinato il 26 giugno 1983 dalla criminalità organizzata, mentre portava a spasso il cane, senza scorta al seguito, a Torino. Aveva 28 anni allora, Paola, era in vacanza in Toscana e venne informata dell’omicidio dai Carabinieri che piombarono a casa sua all’alba, mentre allattava il suo bimbo di un mese.
Paola, oggi insegnante, ha accettato l’invito del Comune di Ceresole. Giovedì 30 maggio nella chiesa della Madonna dei prati, parlerà ai ragazzi delle scuole medie di suo padre, che ha pagato con la vita il suo fermo impegno contro la criminalità infiltrata a Torino. Un secondo appuntamento, aperto al pubblico, al quale parteciperanno anche il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli e i professori Carlo Giuseppe Rossetti e Piermario Demichelis, avrà luogo venerdì 28 giugno, alle 21, nella stessa chiesa.

«Parlo volentieri a Ceresole, paese che mio padre tanto amava e in cui ha speso tutte le sue energie per ristrutturare una casa di famiglia e curare un orto di cui oggi mi occupo personalmente», racconta Paola. «Quando era con noi, non parlava di lavoro. Non ci rendevamo conto del pericolo che stava correndo. Avevamo più paura prima, quando conduceva le indagini sulle attività terroristiche delle Brigate rosse e di  Prima linea, assieme ai colleghi Giancarlo Caselli e Marcello Maddalena. Ci siamo sempre sentiti sotto pressione, ma mai come allora. A causa delle continue minacce, eravamo sempre circondati da poliziotti in borghese, anche quando facevamo la spesa. Mio padre non si faceva vedere preoccupato, forse per la sua capacità di scindere la sfera professionale da quella familiare, in cui non c’era spazio per lavoro e angosce».

Vi somigliate? «Dal punto di vista lavorativo no, io e miei fratelli abbiamo intrapreso strade diverse: io insegno, mio fratello lavora nel campo industriale e mia sorella è giornalista. Mio padre seguì la tradizione di famiglia, che annovera generazioni di magistrati e avvocati. Dato che non amava apparire o essere intervistato dai giornalisti, parlava attraverso il suo lavoro e le sentenze». a.d.

Bruno Caccia, l’uomo e il padre

«Aveva un naturale pudore dei propri sentimenti, ma chi lo conosceva glieli sapeva leggere in un gesto, nell’intonazione di una parola, in un silenzio». È così per i veri piemontesi. E Bruno Caccia lo era. A vent’anni dalla morte si è ricordato il magistrato che ha dato la vita per la legalità, al quale Torino ha intitolato il palazzo di giustizia, un maestro per il procuratore Giancarlo Caselli. Accanto al giudice Gazzetta ha cercato l’uomo, il padre, il marito. L’ha trovato nelle parole della figlia Paola. Com’era Caccia in famiglia? «Fermo, quasi intransigente sulle questioni di principio, mio padre non era autoritario se non quando indispensabile. In tutte le altre occasioni lasciava fare, accordandoci la sua fiducia, rispettando e stimolando le inclinazioni personali di ognuno di noi. Agli estranei poteva apparire come un componente qualunque della famiglia, per nulla riverito, spesso preso bonariamente in giro. Fu un esempio di correttezza e di serenità che ci forniva in ogni situazione importante e questo è sempre stato quello che lui intendeva come ruolo di padre».

Il lavoro e la famiglia per il magistrato erano ambiti separati. «In famiglia non parlava mai di lavoro, cercando di tenerci fuori dalle sue preoccupazioni. Non gli piaceva che si andasse ad assistere ai processi e mai noi ci siamo andati. Aveva una capacità eccezionale di separare le due sfere della sua vita, tanto che a malapena sapevamo quale carica ricoprisse e di che cosa si stesse occupando. Solo dopo la sua morte, grazie alla testimonianza di amici e colleghi, abbiamo saputo cose su di lui che ci erano del tutto sconosciute».

Il magistrato si comportava con i figli – Cristina, Paola e Guido – come un padre rigoroso, ma aperto. «Si guardava all’aspetto buffo delle cose, la conversazione era quasi sempre leggera e credo che questa fosse una vera medicina per mio padre. Non mancavano i litigi, le sgridate, le prese di posizione. Lui non accumulava rancori, ma li scaricava subito, non appena gliene capitasse l’occasione. Spesso risolveva le dispute con il suo famoso “urlo”, che ci piombava addosso esagerato e quasi di sorpresa, ma che svaniva così, com’era arrivato, e veniva presto dimenticato».

I suoi rapporti con gli amici, i conoscenti? «Aveva una grande ammirazione per le persone competenti in qualunque campo, da quelle che avevano i ruoli più importanti a quelle che eseguivano i lavori più umili e marginali. Gli piacevano le persone intelligenti e dotate di senso dell’umorismo e di queste sopportava con più benevolenza i difetti caratteriali. Gli era sconosciuto il rancore personale ed aveva comunque sempre rispetto per ogni individuo».

Caccia era un uomo gioviale. «Parlava volentieri in piemontese quando gliene capitava l’occasione. Oltre che di cose serie, mio padre si occupava anche di cose frivole. Da spettatore gli piaceva molto il calcio e, come ogni buon italiano, si scaldava davanti alle partite alla televisione. Andava volentieri anche allo stadio. Era egli stesso uno sportivo. Autodidatta, aveva raggiunto livelli discreti nel tennis e nello sci, disciplina che ha praticato con una certa regolarità fino all’ultimo. Al mattino si svegliava sempre in forma e preparato ad affrontare una nuova giornata. Faceva mezz’oretta di ginnastica, ascoltando il giornale radio alla sua inseparabile radiolina. Si può dire che non avesse vizi; non era pigro, anzi considerava quasi un dovere mantenersi in forma. Gli costava molto farsi accompagnare in ufficio dalla scorta e, appena gli riusciva, scendeva e faceva un pezzo a piedi». Maria Grazia Olivero

Riposa a Ceresole, il paese che ha avuto sempre nel cuore

«Non si può parlare di una persona senza parlare del paese che essa ha nel cuore e mio padre vi aveva Ceresole, da lui chiamato affettuosamente Ceresulin. Qui c’era, e c’è tuttora, la vecchia casa della sua famiglia con l’antico giardino, la cascina e i campi». Lo dice Paola Caccia. E, per chi a Ceresole è nato, è una conferma. L’affetto che il Magistrato riservava alla piccola comunità, alla sua gente, era tangibile.

«A Ceresole mio padre ha trascorso lunghi periodi di villeggiatura in giovinezza, è sfollato durante la guerra e, dopo la morte dei suoi genitori, negli anni Settanta, ha impiegato gran parte dei suoi risparmi e del suo tempo libero per ristrutturare la casa, molto malandata. Era soddisfatto di aver compiuto, insieme a suo fratello, quest’opera, che all’inizio sembrava forse troppo impegnativa e che mia mamma, dapprima un po’ scettica, vi si fosse anche lei appassionata. Ma era soprattutto al suo orto, reimpiantato nell’angolo più soleggiato del giardino all’epoca dei lavori di ristrutturazione, che egli dedicava tutto il suo – poco – tempo libero negli ultimi anni. Non so bene come – considerato quanto fosse impegnato – riusciva a ottenere ottimi risultati, specialmente con i pomodori, quasi da esposizione, che facevano invidia perfino ai locali agricoltori di professione. Ne era naturalmente molto fiero. Meno entusiasta era mia mamma che, costretta a passare il mese d’agosto a Ceresole, si vedeva sciorinare montagne di zucchine, coste, carote da pulire e cucinare. Tra gli amati lavori dell’orto, quelli mai finiti della manutenzione della casa, la lettura e le lunghe passeggiate con il cane, pensava di trascorrere qui la pensione, ormai vicina. Non gli è stato dato. Riposa invece poco distante, nella cappella di famiglia del piccolo cimitero tra i campi». m.g.o.

Per Giancarlo Caselli è stato «un maestro indimenticabile»

«Da lui sono venute sempre risposte serene, sebbene attente alla realtà, alla complessità dei problemi, con la mobilitazione di ogni energia disponibile, senza recriminare sulle difficoltà, gli ostacoli, le ingiuste accuse». Lo ha detto di Bruno Caccia il procuratore generale Giancarlo Caselli. La figura del Magistrato ucciso a Torino da un commando mafioso il 26 giugno 1983, è stata commemorata nei giorni scorsi con una cerimonia e un concerto. L’iniziativa è stata voluta dalla Sezione regionale dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), il cui presidente Franco Giordana ha ricordato in Caccia, al quale è dedicato il palazzo di giustizia della capitale piemontese, «l’amico e il maestro, rigoroso ed esigente soprattutto con se stesso».

Caselli ha rievocato le inchieste condotte insieme contro le Brigate rosse, negli anni Settanta: «Da lui ho imparato i valori fondamentali del magistrato. Possedeva un’intelligente ironia, capace di sdrammatizzare e di riportare al cuore dei problemi, per meglio affrontarli e risolverli. Ricordo quando un brigatista (appartenente al gotha della banda armata) appena sedutosi davanti a me e a Caccia, in occasione del primo interrogatorio dopo l’arresto, mi affrontò, chiedendomi con iattanza se io fossi di Md. Io risposi: “Sì, e allora?”. Il brigatista ebbe più niente da dire. Quali e quanti commenti ironici Bruno Caccia mi riservò si può immaginare. Smise di sfottermi dopo mesi, quando quel brigatista, bontà sua, decise di aggredirmi fisicamente, in carcere».

Per le inchieste sulla mafia, ha detto Caselli, «ha pagato con la vita quella severità che era solo responsabilità serenamente assunta in funzione di un servizio da assolvere con assoluta imparzialità. Non per l’affermazione di propri convincimenti o teorie, ma per doverosa riaffermazione e testimonianza che la legge è uguale per tutti e da tutti va rispettata, perché le regole di pacifica convivenza rimangano salde, senza che si apra la strada alla sopraffazione del criminale sulla vittima». Il Procuratore generale è andato oltre: «Nella sentenza di condanna di uno degli imputati dell’assassinio di Caccia si legge che egli era “uno di quei magistrati che non vengono a patti con la criminalità…” e che era “accanito contro la criminalità organizzata”. Accanito, quante volte abbiamo sentito ripetere questa parola negli ultimi anni con riferimento a questo o a quel magistrato. Caccia era accanito nel senso che ricercava la verità con determinazione. Attento alle regole, ma non indifferente ai risultati, scrupoloso nell’adempimento dei suoi doveri, senza sconti per nessuno, senza mai tener conto dello status sociale, economico, politico di questo o di quello, senza che la caratura criminale di questo o quello potesse in qualche modo influire sulla tranquillità della sua coscienza. Ricordare Bruno Caccia significa assumere e mantenere l’impegno, nell’esercizio delle proprie funzioni, di un accanimento simile al suo, un giusto accanimento, che intreccia senso dello Stato e responsabilità individuale. L’accanimento che fa di Bruno Caccia un maestro indimenticabile». m.g.o.

Caselli ricorda Bruno Caccia

Morire «a mani nude, rifiutando la scorta, facendosi scudo soltanto della propria onestà, del coraggio, della convinzione che l’uomo è sempre tale, anche se è un criminale. Non c’è elogio più grande». Così ha detto Giancarlo Caselli, il procuratore di Palermo, a Ceresole, domenica 28 giugno, partecipando alla giornata – voluta dal Comune, dalla Pro loco, dalla Biblioteca civica e da Libera, l’associazione contro tutte le mafie – per ricordare, a 15 anni dalla morte, la figura di Bruno Caccia, il magistrato di Torino, procuratore capo della Repubblica, ucciso il 26 giugno del 1983 dalla criminalità organizzata che aveva combattuto con tutte le energie.
Bruno Caccia come «straordinaria figura di guida», come maestro. Nel ricordo di Caselli – parte del team di giovani cresciuti alla scuola del magistrato che tanto amò Ceresole, il paese dove è sepolto – emerge l’immagine dell’uomo giusto, del servitore dello Stato. «Se, in seguito, si è riusciti a fare qualcosa di buono, grandissima parte del merito è sua».

Ed emerge, nelle parole del Procuratore di Palermo, la storia recente di un Paese, il nostro, raccontata dalla voce di chi resta in prima linea nella lotta alla mafia, di un uomo che – per approfittare dell’immagine del Parroco di Ceresole – ha raccolto il mantello del maestro, convinto di dover compiere il proprio dovere.

Un Paese dove molti, troppi, sono stati i delitti “eccellenti”, troppe le stragi che hanno segnato il percorso della storia. «Una storia per certi profili intrecciata con la storia criminale». Una storia che ha visto tante, troppe volte, lo Stato assente, inadeguato, delegante. È la storia anche percorsa da Bruno Caccia – un magistrato «di una serietà intransigente, puntigliosa, quasi sdegnosa di tutto ciò che non fosse l’esclusivo adempimento della legge», come disse, a due giorni dalla morte, Alessandro Galante Garrone –, passato dalla lotta alla corruzione (fu lui a promuovere l’inchiesta sulle tangenti delle Giunte di sinistra del Comune di Torino), a quella al terrorismo e alla delinquenza organizzata, sempre nell’ottica della dedizione al dovere, allo Stato.

Eppure, come ha detto Caselli, «non è sconfitta la morte di un uomo come Bruno Caccia. Il suo sacrificio non è stato inutile, perché ha consentito a noi di andare avanti. La morte del maestro si inscrive con altre – quella di Falcone, di Borsellino, di padre Puglisi –, tappa dolorosissima, eppure decisiva, lungo un cammino di giustizia non interrotto». Dunque, «non arrendersi, raccogliere il mantello…». Non arrendersi, continuare a servire lo Stato, accogliendo la delega alla Magistratura anche quando «il malcostume della classe politica stava portando al disastro e la corruzione era talmente diffusa da diventare sistemica».

Così Bruno Caccia, secondo Caselli, precorrendo i tempi, «contribuisce in maniera decisiva a formare la nuova Magistratura italiana, il nuovo agire giudiziario, caratterizzato dall’indipendenza».

E, quasi per contrasto ai tempi delle polemiche, il ricordo va all’uomo retto, leale, fermo. «Caccia ha visto l’illegalità, la compravendita di voti, la mancanza di solidarietà. Come Falcone, Borsellino, padre Puglisi, non si è girato dall’altra parte. I cittadini, lo Stato… Spesso ci giriamo, guardiamo altrove, evitiamo d’indignarci. Perché pensiamo che spetti ad altri. Non siamo abbastanza vivi. Preferiamo la delega. Per questo è più facile colpire chi, a mani nude, continua a fare il proprio dovere. Siamo vivi, invece, discutiamo». m.g.o.

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