Ian Mc Ewan: «È rischioso scrivere di felicità in un romanzo»

ian_mcewan_collisioni2013bBAROLO Oltre a essere uno dei più importanti narratori angloamericani, può definirsi anche uno sperimentatore. Ian Mc Ewan, alla fine degli anni Ottanta, ideò le prime scuole di scrittura creativa. Miele (Einaudi), il suo decimo romanzo, è stato presentato a Collisioni: pubblico incantato e parole che hanno lasciato il segno.

Come è nata la sua voglia di scrivere?
«Ho ricevuto un’educazione storica, tipica degli anni ’50, ma sono stato abbastanza fortunato: l’insegnante di letteratura inglese è stato in grado di indirizzarmi verso il mondo delle lettere. Mi ha aiutato a essere un buon lettore».

Come vede i suoi primi racconti?
«Se si decide di scrivere narrativa a ventuno anni, si è fuori di testa. Personalmente, da ragazzo, sentivo l’impulso di redigere un libro totalmente originale. Per questo motivo si spiega il tono dark e cupo nella narrazione. Poi mi sono sposato e ho avuto figli, e ho sperimentato la paternità: dal momento della nascita dei miei figli, si è aperta l’ampia gamma di colori della vita: hanno preso forma le mie ambizioni, raggiungibili con la fiction letteraria. Ho cercato, dopo la paternità, una sorta di redenzione che mi permettesse di comunicare ai miei figli le esperienze apprese nel corso della vita».

Sofferenza o gioia prevalgono nei suoi romanzi?
«Si inizia sempre col dolore, poi, piano piano, emerge la gioia. Esistono solo piccole scintille di felicità, ma sono spesso mischiate con lo stupore e il senso di scoperta, sentimenti capaci di oscurare la positività. Bisogna tenere presente che per un narratore l’inclinazione al romanticismo e alla tragedia non è necessaria. Per esempio: ho vissuto in una città di provincia per molti anni. Quando mi trasferii nuovamente a Londra sentii il bisogno di esprimere la mia gioia: scrissi un romanzo. Ma è rischioso cercare di scrivere la felicità in un romanzo. Solo Tolstoj ci riuscì con Anna Karenina. Di fatto, fino a che scrivevo di stupri e malcontenti i critici mi elogiavano, oggi non mi perdonano per avere scritto a proposito di felicità, come se vi fosse una forte opposizione a osservare la felicità degli altri».

È più facile scrivere di se stessi o inventare?
«Preferisco inventare: nelle mie opere do in pasto ai miei personaggi pezzi di me stesso; ho mai scritto memorie, perché ciò che mi riguarda mi annoia». 

Ci parli di Miele, il suo ultimo libro ambientato durante la guerra fredda.
«Ero attratto dal personaggio di una giovane donna molto bella: lei decide di finanziare un romanzo scritto da un giovane ambizioso. Scatta così un meccanismo di sorveglianza reciproca, perché ambedue sono spie. Il tema riprende il concetto del tradimento e delle relazioni: quando si inizia una relazione con una donna, si comincia a spiare per osservare in che modo lei reagisce, quali i suoi punti deboli: l’uomo ha necessità di confrontarsi».

Marco Viberti

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