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Peyman Yazdanian Echi (ad Alba) da terre lontane

INTERVISTA Il compositore e pianista iraniano Peyman Yazdanian giovedì scorso si è esibito nella chiesa di San Giuseppe di Alba per la rassegna Suoni dalle colline di Langhe e Roero, organizzata dall’Italy&UsaAlba music festival: un evento di valore internazionale, durante il quale Yazdanian ha eseguito alcune sue composizioni sotto il titolo sognante e immaginifico di Echi da terre lontane.

La musica iraniana ha per noi europei un fascino ancora esotico, evoca immagini da mille una notte, ma Peyman Yazdanian, classe 1968, una carriera per la musica classica e la musica da film, sa evocarne le atmosfere in modo assolutamente originale, fondendo i suoni della sua terra con la tradizione europea studiata e poi insegnata nelle accademie di Vienna e Parigi. Autori come Liszt, Beethoven, Chopin, Rachmaninov sono i suoi modelli, e Yazdanian, che abbiamo incontrato dopo il concerto con il direttore artistico della rassegna Giuseppe Nova, sa eseguirli e trasformarli secondo una sensibilità che fa dello scambio culturale un valore aggiunto.

Peyman Yazdanian

«Se penso alla cultura iraniana e a quella europea trovo molte cose in comune. A partire dal valore molto forte assegnato da entrambe alla famiglia, riconosciuta come il nucleo centrale della società. Personalmente, poi, come molti altri iraniani, sono a favore di una maggiore apertura verso l’Europa e vivo con uno stile di vita che cerca contaminazioni. Sono molto orgoglioso del mio Paese, ma non credo di essere un vero e autentico iraniano. La maggior parte delle persone del mio Paese, ad esempio, arreda la propria casa con stili e oggetti tradizionali, mentre un dieci per cento di cui faccio parte vive in una dimensione culturale diversa. Sembra banale, ma la decorazione di una casa dice molto della mentalità di una persona, e se qualcuno visita casa mia ci trova diversi elementi europei così come dipinti, calligrafie e tappeti della cultura iraniana. Con la musica succede la stessa cosa: utilizzo la tradizione classica europea, ma mi servo di elementi della musica iraniana. Per me è una necessità, quella di inserire tocchi e sfumature della mia terra, una sorta di istinto: come quando mi ritrovo a parlare o a pensare in inglese o in francese, ma a sognare solamente in farsi».

Come autore di musiche per il cinema ha legato il suo nome a quello di molti registi, iraniani e stranieri: puoi parlarci di come funziona il processo creativo quando componi per un film e qual è il tuo rapporto con il più famoso regista iraniano, Abbas Kiarostami?

«Scrivere musica per il cinema è un processo completamente diverso da quello che utilizzo quando compongo musica per me stesso: per me è come una sfida. Quando scrivo musica mia, infatti, sono assolutamente libero, le note fluiscono senza freni, non faccio altro che scrivere e suonare, scrivere e suonare, senza pormi domande sulla lunghezza di un pezzo o sulla sua struttura. Quando invece scrivo per il cinema ho dei limiti ben precisi, primi fra tutti quello della lunghezza e quello dell’immaginazione del regista, perché l’opera è soprattutto sua e io devo sforzarmi di entrare nella sua immaginazione, devo intercettarne le idee. In generale è una cosa molto bella, perché ho la possibilità di vivere vite che non mi appartengono, ciascuna per ogni film a cui lavoro. E poi c’è il rapporto con i registi, lo scambio culturale con i due autori cinesi con cui ho lavorato, Li Yu e Lou Ye, e il legame che instauro con i miei connazionali. Kiarostami, ad esempio, per me è come un maestro, un artista che mi ha insegnato a mantenere salde le radici. Ho lavorato per lui nel 1999 per Il vento ci porterà via, e siccome allora cominciavo a viaggiare per lavoro, lui mi ha consigliato di fare come gli alberi, che hanno le radici ben piantate nel suolo, ma i rami protesi oltre il diametro del tronco: in questo modo i frutti possono cadere nelle proprietà dei vicini e non appartenere più all’albero…  Abbas non dice mai le cose in modo diretto, usa sempre queste metafore: e per quanto per me sia stato difficile lavorare in un suo film (e la stessa cosa è capitata con Asghar Farhadi, il regista del premio Oscar Una separazione), perché i suoi sono realisti e hanno poca musica, da lui ho imparato che less is better, che cioè il poco è meglio, che si possono dire tante cose mostrando, o facendo ascoltare, pochissimo».

Tra i registi con cui hai collaborato c’è anche Jafar Panahi, diventato molto noto in Europa dopo il suo arresto durante le proteste contro il regime iraniano nel 2011. Com’è al momento la situazione politica e sociale in Iran, specie dopo le elezioni dello scorso giugno?

«Ho avuto il privilegio di lavorare con Jafar Panahi per le musiche di Oro rosso, nel 2003, e di essere suo amico, perché abitiamo nella stessa via. Al momento Jafar ha ottenuto gli arresti domiciliari, può muoversi liberamente in Iran ma non può viaggiare all’estero. Nel periodo della sua detenzione sono andato spesso a fargli visita, perché sentivo il suo bisogno di parlare, di non essere abbandonato dagli amici. Per quanto riguarda il mio Paese, le elezioni sono state un momento molto importante, la gente ha celebrato la vittoria di Rohani, un candidato moderato, con molta gioia. Coincidenza ha poi voluto che due giorni dopo le elezioni l’Iran vincesse contro la Corea del sud la partita decisiva per la qualificazione ai Mondiali, e tutti sono letteralmente impazziti. Le persone ballavano per le strade, facevano festa, e quando pure io mi sono unito ho visto Panahi che filmava tutto quel divertimento: sicuramente utilizzerà quelle immagini in qualche modo… Questo è un momento di grande speranza per la mia gente, non solo per i cambiamenti nella società, ma anche per quelli nell’economia. Sento che qualcosa sta per capitare, e come artista ho il dovere di contribuire ad aumentarla, quella speranza».

Roberto Manassero

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