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Il dramma del 43° reggimento fanteria

Il dramma del 43° reggimento fanteria
I partigiani della brigata Matteotti.

Ecco un altro intervento relativo ai drammatici avvenimenti dei giorni 8 e 12 settembre 1943, che coinvolsero il 43° reggimento fanteria, di stanza alla caserma Govone, e la città di Alba. Per ricostruire, a distanza di 70 anni, quanto successo, abbiamo rintracciato un testimone diretto: Angelo Racca.

«Nel settembre 1943 ero in servizio al 43° reggimento fanteria, divisione Forlì. Ma ero distaccato presso la caserma dei Carabinieri di Cravanzana, per i controlli sui renitenti alla chiamata alle armi della leva 1924. A Cravanzana c’erano un maresciallo, un appuntato, due carabinieri semplici e io. Altri militari erano stati inviati dal comandante del reggimento presso le Stazioni di Bossolasco, Diano e altri paesi, con i medesimi compiti. Verso le 15 del 9 settembre, una camionetta dei Carabinieri arriva da Alba con ordini del colonnello comandante: io devo subito rientrare in caserma. Arriviamo in caserma nel tardo pomeriggio. Un maggiore dice a tutti i militi di posare fucili, baionette e munizioni nel cortile; un po’ sorpresi obbediamo. Vedo dei cannoncini in cortile; intanto viene notte. Qualcuno dice: «Attenti tra un po’ arrivano i tedeschi». Qualcuno riesce ad avvisare il capostazione lì vicino, che fa sistemare un carro merci sui binari che corrono vicinissimi alla caserma. Sarà utilissimo per fuggire dalle finestre dei piani superiori senza farsi male. Non so cosa fare. Mi viene in mente che in magazzino ci sono vesti civili. Mi precipito, trovo abiti dei nuovi arrivati della leva 1924. Mi cambio subito. Trovo una valigia, recupero un po’ di alimenti, foraggi, scatolame e poco zucchero. Nel frattempo arrivano i tedeschi, è quasi notte. Sono almeno sessanta, venivano da Bra. Si accordano subito con il colonnello comandante. Cenano in mensa ufficiali tedeschi e italiani. Mangiano, bevono, ridono, pare ci sia cameratismo. Magli ingressi sono presidiati da tedeschi armati. Qualche fante è riuscito a scappare saltando dalle finestre sul carro merci. Allora mi decido: esco dalla porta principale con la valigia e in borghese. La scena è surreale: il soldato tedesco sull’attenti fa il saluto militare. Sono le tre del mattino, è buio. Attraverso il ponte sulla ferrovia, vedo il carro merci sui binari. Veloce arrivo in piazza Rossetti ove abita una sorella, mi fermo poche ore. Saluto, lascio la valigia e via al bar Calissano ove incontro un amico che mi dice che in Alba sono arrivati i tedeschi. “Li ho visti”, confermo. Arrivano altri clienti del bar, tutti vogliono sapere. Meglio scappare, vado a Manera. Un disastro. Ci sono molti Alpini sbandati della 4ª armata. Qualcuno in divisa, altri in borghese, poche armi. Con alcuni militari del 43° fanteria andiamo verso la montagna. Arriviamo il giorno dopo a Corsaglia, in val Maudagna non lontano da Mondovì. Siamo in 56. Un embrione di banda partigiana. Alloggiamo in un alberghetto. Dotazioni: un moschetto, uno Sten, poche munizioni. Tanta paura. Poche settimane dopo, il primo rastrellamento tedesco ci disperde. Scappo nei boschi, mi salvo in un forno di castagne. Decido di tornare in Alba. A Bossolasco trovo una corriera, non mi vuole caricare. Poi salgo, ma debbo scendere alla scuola Enologica. È fine ottobre 1943. Pochi giorni dopo ci incontriamo, in Alba, alla cascina dell’Acqua marcia, vicina al torrente Cherasca. Siamo 78 militari. Decidiamo di dare vita a una nuova formazione. Sarà uno degli embrioni della 21ª brigata partigiana Matteotti».

I partigiani della brigata Matteotti.
I partigiani della brigata Matteotti.

Questa è la testimonianza raccolta nei giorni scorsi dalla viva voce dell’interessato. Occorre contestualizzare il tutto e fare confronti con altre testimonianze, onde ricostruire un mosaico dei fatti il più realistico possibile. È un metodo di lavoro indispensabile per qualsiasi ricerca a carattere storico, quando si prendono in considerazione fonti orali. Alcune importanti conferme, giungono dai ricordi del partigiano Racca.

È quasi sicuro che ci sia stato un accordo tra il colonnello comandante del 43° fanteria e comandi superiori.

Due i nuovi fatti: il giorno 9 settembre l’alto ufficiale richiede ai militari distaccati presso i Carabinieri di rientrare in caserma. È un elemento significativo: vuole consegnarli ai tedeschi come poi è avvenuto per alcuni.

Che ci fosse molto cameratismo tra i tedeschi appena giunti e gli ufficiali del 43° fanteria denota un accordo tacito. Il nostro testimone ha usato la parola “baldoria” riferito alla cena citata. In quei drammatici momenti, che cosa era successo? I 60 tedeschi di cui parlò il testimone giunsero effettivamente, ma in un secondo momento. Prima le SS, al mattino del giorno 10 e, di sera, la Wermacth da Bra. Ciò spiega – a mio avviso – anche il saluto militare che il Racca ricevette all’uscita della caserma. Molte testimonianze concordano sulla brutalità delle SS, con alcune uccisioni di civili; di contro evidenziano la condotta abbastanza corretta dei soldati della Wermacth.

Il rastrellamento di Corsaglia nel monregalese è riportato da vari autori. I partigiani non avevano altra scelta che lo sganciamento rapido. Quando nel marzo del 1943 accettarono il combattimento contro forze nazifasciste in val Casotto – sempre nella zona di Mondovì – fu una tragedia. La difesa rigida, su trincee improvvisate, fu una tattica errata. Il prezzo fu durissimo: molti morti e lo sbandamento totale delle formazioni partigiane. In seguito prevalse la difesa elastica – utilizzata già in Jugoslavia – secondo il famoso motto: a nemico che attacca offri un pugno di mosche, a nemico che fugge offri ponti d’oro. Fu vincente.

Molti albesi in quel “tragico e glorioso” settembre 1943 si prodigarono per aiutare i militari. Correndo talora rischi e pericoli.

Ecco una testimonianza: «Abitavamo in Alba, in via Manzoni. In quei giorni terribili – suppongo il 10 settembre – suona il campanello alla nostra abitazione. Un signore ci consegna un biglietto. È scritto a mano con la firma di mio zio, fratello di mia mamma. “Portatemi dei vestiti, sono nascosto su un treno alla stazione di Alba”. Mio padre lo raggiunge con qualche indumento. In seguito, fortunosamente, tutti e due raggiungono via Manzoni. Un episodio semplice, che cambiò la vita di mio padre. Sino al 1943 lavorava in una tipografia; in seguito, con il cognato in qualità di socio, rilevò una cartolibreria nel centro storico di Alba. Con la nuova attività mio padre tenne sempre contatti con la Resistenza. Spesso venivano a trovarlo antifascisti, purtroppo, anche militari repubblichini, che erano di stanza al collegio civico o al seminario minore. Ambedue vicini al negozio. Mio zio era velocissimo a nascondersi nella cantina sottostante. In alcune occasioni il rapido oblio fu provvidenziale per alcuni civili. Mio padre aiutò un ebreo a fuggire da Alba, gli trovò un luogo sicuro. L’uomo per molti anni, dallo Stato di Israele, ove si era trasferito nel 1946, lo ringraziò. Inoltre ebbe anche un piccolo ruolo nella famosa “beffa delle carceri di Alba”, che portò alla liberazione di alcuni partigiani imprigionati».

Lorenzo Tablino

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