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Se il tartufo non è più quello di una volta

Se il tartufo non è più quello di una volta

ALBA Save the truffle è un’associazione nata dall’idea del trifolao albese Carlo Marenda e del naturalista Edmondo Bonelli. Il progetto è semplice nella sua natura: proteggere le piante tartufigene dall’incuria o dalla dimenticanza umana, valorizzandone il potenziale produttivo e proteggendone le caratteristiche biologiche. Tutto attraverso seminari, convegni, corsi di formazione nelle scuole e la creazione di reti istituzionali. La scorsa settimana, durante un convegno organizzato dall’associazione nel castello di Barolo, abbiamo incontrato Bonelli per discutere del destino del tartufo.

Se il tartufo non è più quello di una volta 1
Edmondo Bonelli durante uno scavo nell’alveo del fiume Tanaro.

Quali i dati e la situazione delle aree tartufigene? È vero che stanno progressivamente scomparendo?
“Ogni trifolao conferma senza indugio un dato: non si trovano più i tartufi di una volta. Ed è vero. Il motivo principale è la distruzione delle zone produttive. E’ difficile fornire una stima del fenomeno, ma è ipotizzabile che ad oggi ne abbiamo perse più del 70% rispetto alla metà del secolo scorso. Un ulteriore peggioramento si è registrato negli ultimi anni”.

Quali le tipologie di piante che nascono su queste aree?
“Il tartufo bianco nelle nostre zone si lega in simbiosi con querce, pioppi, tigli, salici, noccioli selvatici. Ognuna di queste specie forestali è tipica di un habitat. Le querce nei versanti delle colline e nei fondovalle, i pioppi ed i salici lungo i corsi d’acqua, e così via. Ognuno di questi ambienti oggi è oggetto di coltivazione intensiva”.

Passiamo alle cause del fenomeno di progressiva “sparizione”. Perché il ruolo dei viticoltori è importante?
“La scomparsa delle piante tartufigene è da attribuire a una serie di motivazioni che fanno tutte capo ad una contrapposizione: da un lato i trifolao che per tradizione non dichiarano quasi mai i luoghi di raccolta, dall’altro i proprietari dei terreni, dediti invece alle coltivazioni e sovente del tutto ignari di avere piante da tartufo nei propri appezzamenti. I viticoltori, come anche i corilicoltori, oggi possono ricoprire un ruolo chiave. Da parte di chi coltiva si sta maturando una consapevolezza più elevata del proprio compito, dimostrata dal diffondersi sempre più di forme di agricoltura conservativa come, ad esempio, la conduzione biologica. I tempi sono maturi affinché si giunga a considerare il bosco o le singole piante forestali come isole di biodiversità, una ricchezza anche per le stesse coltivazioni”.

Nel concreto, quali sono le procedure da adottare per contrastare il fenomeno, considerando anche il recente riconoscimento dei Paesaggi vitivinicoli a Patrimonio Unesco?
“Per incentivare la produzione di tartufo bianco oggi sono state messe a punto diverse tecniche, grazie alle ricerche da parte della Regione Piemonte e del Centro Studi di Alba. Disponiamo degli strumenti per gestire il bosco in chiave tartufigena. Così è possibile trasformare gli incolti degradati, fonte di problemi gravi quali la flavescenza dorata della vite o la proliferazione incontrollata degli ungulati, in boschi da tartufo, ospitali per tutta la fauna selvatica e ricchissimi di biodiversità. Con gli stessi criteri possiamo mantenere le alberate lungo i corsi d’acqua, barriere contro l’erosione, le file di salici da vimini e le grandi querce isolate tra i vigneti. Questi sono i luoghi del tartufo, tutti elementi caratteristici del nostro variegato paesaggio rurale. Perderli significherebbe banalizzare drasticamente le nostre colline, anche agli occhi attenti di chi viene a visitare queste straordinarie terre”.

Matteo Viberti

 

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