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Renato Ratti: servirebbero nuovi seguaci

Renato Ratti: servirebbero nuovi seguaci

PERSONAGGIO Renato Ratti ha lasciato un segno profondo nello sviluppo del settore vitivinicolo piemontese, anche se non sempre ne siamo consapevoli. Enologo e produttore di Barolo, per una dozzina d’anni è stato direttore di vari consorzi (da quello dell’Asti a quello delle due Barbere astigiane fino a Barolo e Barbaresco). È stato uomo del vino al di sopra delle parti e come tale ha tracciato un cammino. Molti produttori, i più illuminati, hanno raccolto e messo in pratica il suo insegnamento.

Sue sono state le iniziative concrete come la realizzazione del museo dedicato agli attrezzi della vite e del vino del passato o il recupero della bottiglia Albèisa, arrivata fino a noi dagli usi tradizionali del Settecento, o ancora i vari libri che ha scritto su storia e cultura del vino.

Uomo dalle intuizioni felici. Ratti è stato l’uomo di tante intuizioni, idee che – tradotte in pratica – hanno trasformato un settore basato sull’individualismo in un comparto organizzato e al passo con i tempi. L’intuizione basilare è quella che lega il nostro vino alla fascia del clima freddo temperato. Prima di Ratti, i più erano convinti che il grande vino fosse quello vecchio che sapeva di vecchio. Ratti ha fatto capire che la grandezza del Barolo e del Barbaresco sta invece nella loro capacità di resistere al tempo, non di subirne l’effetto negativo. Si arrabbiava quando sentiva dire che il nostro vino invecchia. Lui sosteneva che i vini prodotti a clima freddo temperato non invecchiano, ma tendono a resistere all’invecchiamento, trasferendo nel domani i sentori dell’origine.

Ratti ha smontato quei luoghi comuni che costellavano la letteratura vitivinicola del dopoguerra. Ha sfatato il mito della stappatura anticipata, dimostrando che non serve. Basta un calice con la boccia ampia e l’effetto è migliore. E che dire della temperatura di servizio? Molti erano convinti che il Barolo o il Barbaresco dovessero bersi anche a 20-22 gradi. Senza parlare degli abbinamenti troppo convenzionali: il Barolo con la lepre e il Barbaresco con il fagiano. Ratti ha dimostrato che i nostri vini possono stare a tavola con molte altre compagnie.

Un ricordo da praticare. In queste settimane, si è tornati a parlare di Ratti. Lo ha fatto la famiglia, insieme al Consorzio dell’Asti a Mango, paese al quale Ratti era molto legato e nel quale riposa dal settembre del 1988, quando un male incurabile se lo è portato via. Sono tornati alla mente tanti ricordi, come quell’idea di fine estate 1972, quando la sua capacità di convincere aiutò tutti a decidere che quell’annata non doveva esistere per Barolo e Barbaresco. O le intuizioni che aiutarono il mondo dell’Asti a trovare una strada di tutela e valorizzazione, la pesatura obbligatoria, il confronto tra le categorie e la firma di un accordo interprofessionale che garantiva gli attori del settore. O ancora le campagne di promozione per valorizzare l’Asti, legittimare la Barbera d’Asti e quella del Monferrato, con quell’immagine a due facce, la storica e la moderna. La sua ultima eredità è stata, a fine anni Ottanta, l’idea dell’Associazione vini di collina, che ha lottato per superare una visione arcaica del vino e della sua regolamentazione per portarla alla dignità degli ultimi 25 anni.

Renato Ratti non va solo ricordato. Sarebbe più utile se le sue idee trovassero anche oggi nuovi seguaci.

Giancarlo Montaldo

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