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Tiziano Gaia: dopo i Barolo boys protagonisti diventeranno macedoni e albanesi

Non piace l’arrivo degli investitori stranieri sulle colline del Barolo

“Tiziano Gaia si è a lungo occupato delle pubblicazioni enologiche di Slow Food. Oggi è anche regista cinematografico sul mondo del vino, con Barolo boys-Storia di una rivoluzione e il recente documentario sulla vita di Renato Ratti.

Quali sono stati i suoi primi approcci col mondo del vino, Gaia?

«Ho lasciato il mondo della critica una manciata di anni fa, perché lo trovavo un modo superato di parlare di vino. Sono andato a New York a lavorare presso una grande enoteca, quindi, tornato in Italia, ho iniziato a occuparmi di enologia da un punto di vista narrativo e cinematografico: il documentario sui Barolo boys e quello su Renato Ratti. Mi interessa sempre meno quanto c’è nel bicchiere e sempre di più ciò che sta all’esterno, la storia, la cultura, l’umanità, l’arte e la bellezza. Il vino è un medium straordinario, ma va recuperato un umanesimo che superi le differenze stilistiche e trasformi il viticoltore nel mecenate del ventunesimo secolo. La categoria ne ha tutti i mezzi e le possibilità. E poi c’è il discorso legato alla promozione dei territori attraverso il vino, il cosiddetto enoturismo, ancora troppo poco sfruttato e su cui sto elaborando un progetto».

Tiziano Gaia: dopo i Barolo boys protagonisti diventeranno macedoni e albanesi

Come sta mutando il mondo del vino locale, in particolare riguardo all’arrivo di investitori stranieri?

«Prima di tutto serve mettere da parte pregiudizi e provincialismi. Pensavano a un tranquillo passaggio generazionale tutto interno alle aziende. Ora scopriamo che nomi anche storici del Barolo possono finire in mani esterne o addirittura straniere. Sarò molto netto: per me è un fatto positivo, porta il territorio a scuotersi dal torpore, aggiunge stimoli e prospettive inedite; inoltre costringe i langhetti a fare un po’ di serena autocritica: con i prezzi che hanno imposto alle vigne, come potevano pensare che non arrivassero i grandi investitori, visto che sono gli unici in grado di far fronte a certe quotazioni? Guardiamo alla storia e ai suoi momenti di rottura: il Barolo lo hanno fatto i re, i commercianti e i Barolo boys; e ora tocca agli stranieri danarosi. Ma io guardo oltre e vedo un’altra rivoluzione nei tanti macedoni e albanesi che oggi occupano la base della filiera produttiva: domani ne saranno protagonisti. E a chi lo ritiene uno scenario da fantascienza, consiglio di ripensare a cosa accadde all’indomani della fine della mezzadria, quando molti semplici operai diventarono padroni».

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Ci dipinga lo scenario futuro di cui parla.

«Nel documentario su Renato Ratti c’è un momento in cui l’attore protagonista disegna una vignetta, ironizzando sulle limitazioni imposte dal disciplinare del Barolo-Barbaresco: non sarà reso obbligatorio anche consumare il vino albese in loco?, si chiede. Cinquant’anni dopo mi pare un bel tema: non c’è dubbio che le cantine debbano aprirsi al mondo e farsi conoscere, come stanno facendo ora. Però, vedo due limiti: da una parte servirebbe tornare a fare squadra per presentarsi uniti al cospetto di certi nuovi mercati (penso alla Cina), dove il singolo scompare, letteralmente; dall’altra non bisogna trascurare il territorio d’origine, che non è fatto soltanto delle vigne che danno vita a quei vini, ma di un’umanità e di un bagaglio di saperi che vanno coltivati con la presenza e la costanza. C’è il rischio che Alba e le Langhe diventino una specie di anonimo, per quanto bellissimo, parco a tema a solo uso e consumo degli stranieri, che vengono da noi ma non trovano nessuno ad ascoltarli, perché sono tutti impegnati a vendere in giro per il mondo. Bisogna recuperare un rapporto umano e diretto che oggi vedoun bel po’ sfilacciato».

m.g.

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