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Roberto Saviano: «Quanto di quei criminali c’è anche in me?»

Roberto Saviano: «Quanto di quei criminali c’è anche in me?»

ALBA Roberto Saviano non è uno scrittore qualunque. È un antropologo: guarda la realtà come da un lontano pianeta, tentando di coglierne l’essenza per poterla poi trasformare. Perciò al teatro Giorgio Busca pare stupito di fronte alla folla: entrambe le sale aperte, oltre mille persone, difficoltà a trovare parcheggio. Un palcoscenico con al centro lo scrittore torinese Giuseppe Culicchia in dialogo col napoletano autore di Gomorra.

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Si parla dell’ultimo lavoro di Saviano La paranza dei bambini (Feltrinelli), che racconta le vicende criminali e omicide delle giovani bande napoletane. Perché questa calca, questa urgenza di ascoltare le sue parole? Forse perché lo scrittore incarna una storia: quella di un ragazzo che nella sua stanza scrive Gomorra. Il libro d’esordio. Finisce la stesura a 26 anni, Mondadori ne stampa 5mila copie e dopo pochi mesi il romanzo diventa epidemico: tutti lo vogliono leggere. Ma Saviano viene messo sotto scorta, Carabinieri che lo sorvegliano giorno e notte. I boss potrebbero uccidere il ragazzo che ha portato alla luce meccanismi prima reconditi. La tutela avrebbe dovuto durare due settimane, dopo 11 anni è ancora lì.

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Dice l’autore: «È dura, ma quando vengo al Nord o in luoghi come Alba mi accorgo che ci sono città curiose e attente a ciò che succede fuori. Altre invece guardano solamente sé stesse, ciò che succede dentro».

La paranza dei bambini, il romanzo ispirato a un’inchiesta giudiziaria

«Il nuovo romanzo racconta una storia ispirata a un’inchiesta giudiziaria. È la vicenda di Nicolas, che nella realtà si chiamava Emanuele. L’idea che lo spingeva a delinquere era: “Ce la posso fare solo se faccio un mucchio di soldi”. Sapeva benissimo che sarebbe morto. Per capire come i bambini inizino a sparare è sufficiente citare i numeri: se investo mille euro nella Apple, l’anno seguente ne avrò 1.300, se l’azienda sarà andata bene. Se investo mille euro in cocaina, l’anno dopo il ritorno è 182mila euro. In nome di queste cifre si ammazza. Per comprendere i ragazzini criminali bisogna capire il contesto in cui vivono: in certi quartieri del Sud la disoccupazione è all’80 per cento, un inferno assoluto».

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Un aneddoto: «Un giorno il capo di paranza girava con i suoi ragazzi. Chiese una sigaretta a un passante. Quello rispose: “Ma come, tu che sei il re di Napoli chiedi a me la sigaretta?”. Allora il capo della banda disse a uno scagnozzo: sparagli. E lui sparò. Queste cose sono all’ordine del giorno in certi luoghi».

Il finale svela un obiettivo ambizioso: «Ho imparato a cercare l’innocenza laddove non c’è, dove sembra esista solo brutalità. È l’unico modo per risolvere il problema. Anche la serie di Gomorra è costruita così. Vogliamo che il lettore o il telespettatore si chieda: quanto di questi criminali c’è anche in me?”».

Ognuno sembra vedere in Saviano quello che non è, quello che è e quello che vorrebbe essere. Lui sembra intuirlo, finisce l’incontro con una frase. Semplice: «Educare all’antimafia vuol dire educare alla felicità».

Matteo Viberti

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