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Le origini del termine piemontese “Travaj”, raccontate da Paolo Tibaldi

Paolo Tibaldi ci racconta aneddoti le

ABITARE IL PIEMONTESE

Travàj: Impegno, lavoro, patimento

Maggio comincia sempre con un pensiero a chi lavora e a chi, ahinoi, di lavoro ha necessità. Qualcuno non ha mai smesso…altri, mai neppure cominciato. La parola di questa settimana, per forza di cose, è “travàj”. Forse non tutti sanno che “Travàj” significhi sì, ormai, lavorare… ma il suo significato etimologico è molto più ampio e, se vogliamo, infausto.

Infatti dal latino, “tripaliare” significa “martirizzare”, giacché il cosiddetto “tripalium” era uno strumento di tortura medievale composto da tre pali a cui venivano sottoposti i condannati. Di conseguenza, “travaglio”, è anche sinonimo di sofferenza (sono chiamate così le ore che precedono il parto), vale a dire tormento, patimento fisico o spirituale. Una parola così antica che ancora oggi, Travaglio, risulta un cognome piuttosto diffuso.

Col passare dei secoli, l’evoluzione sociale, economica e linguistica ha fatto sì che questa parola venisse associata direttamente all’attività che ognuno svolge per poter “tirare avanti”. E per qualcuno, sì, è pura tortura. Ma il “travaj” in senso ampio è anche un impegno preso volentieri e mantenuto. Possiamo quasi parlare di missione.

Mitico è il cosiddetto “travaj del pento” (lavoro del pettine, troppo faticoso ed ostico in relazione all’esiguo risultato ottenuto), che potrebbe avere origine proprio nelle valli cuneesi, in particolare ad Elva in Val Maira, terra di raccoglitori di capelli che viaggiavano in cerca di donne o ragazze disposte a cedere la propria folta chioma in cambio di qualche lira, un pezzo di stoffa o un foulard. Quando le trecce vere e proprie scarseggiavano si accontentavano anche di recuperare i capelli rimasti al pettine, capelli di poco valore. Questi ultimi, venivano lavati e pettinati con brusche speciali fino ad essere mazzettati a seconda di colorazione, lunghezza e finezza. Tutti i capelli, poi, venivano trasformati in pregiate parrucche per le acconciature di Lord, dame aristocratiche e benestanti delle principali città europee e d’oltreoceano.

Ma non basta: c’è anche chi sostiene in maniera piuttosto attendibile che tutto cominciò invece dal “sòd del pento” (soldo del pettine) fatto mettere in circolazione da Napoleone Bonaparte all’inizio del 1800, a Torino. Questa moneta riportava da un lato il volto dell’Imperatore e dall’altra, una corona malamente incisa, che somigliava appunto ad un pettine; gli ironici sabaudi, visto il modestissimo valore della moneta e la pungente ironia verso Bonaparte, ribattezzarono quel soldo: “sòd del pento”, tanto che l’espressione si estese ad indicare qualunque cosa di scarso valore, lavoro compreso.

Paolo Tibaldi

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