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Il racconto dell’albese Alice di una Londra, ferita dal terrorismo, che si appresta al voto

Il racconto dell'albese Alice di una Londra, ferita dal terrorismo, che si appresta al voto

LONDRA La lettrice albese Alice Gallo, a Londra per studiare recitazione, racconta la paura e le emozioni vissute prima e dopo l’attentato terroristico di sabato 3 giugno.

Il racconto della ragazza

Domenica 4 giugno, Londra.

L’atmosfera è quella della quiete prima della tempesta. Esco di casa di malumore alle due del pomeriggio e quando incrocio altri passanti per un attimo leggo nel loro sguardo lo stesso disagio che cerco di tenere a bada dentro la mia testa.

La città è placida, le strade silenziose e la metropolitana meno affollata del solito; eppure i centri commerciali brulicano di gente.

C’è uno strano nervosismo nell’aria: tutti abbiamo scritta in faccia una strana rassegnazione, un dolore che non apre bocca. È come se tutti aspettassimo un minimo gesto, una scusa per poter finalmente esplodere. Siamo una bomba ad orologeria.

La sera prima, alle 23.40, mentre sto servendo i clienti in un cocktail bar a due passi dalla St. Paul’s Cathedral, in pieno centro, una mia collega si avvicina e mi dice che c’è stato un attentato sul London Bridge: un furgone ha investito dei passanti e già si contano i morti.

Lo siamo venuti a sapere da una cliente, con più di un’ora di ritardo. Corro a prendere il telefono per tranquillizzare famiglia ed amici e in un primo momento la notizia non tocca le corde che dovrebbe: nel locale le persone ballano, bevono e sembra che l’attentato sia stato a miglia di distanza.

Poi, all’improvviso, un gruppo di persone afferra le borse e i portafogli e si dirige all’uscita; vogliono andarsene, hanno appena saputo. Qualcuno si guarda intorno; noi cameriere e bartender cominciamo a pulire e prepararci per la chiusura anticipata del locale.

Finiamo tutti prima e ci raduniamo attorno ad un tavolo per bere qualcosa. Veniamo a sapere ulteriori dettagli: c’è stato un altro attacco nel quartiere di Borough e questa volta si tratta di pugnalate; la metropolitana è stata chiusa.

Nessuno di noi ha voglia di uscire dal locale e di tornare a casa, non ci sentiamo al sicuro. Nemmeno sappiamo come tornare: gli autobus sono pieni e fanno fatica a caricare altra gente, i primi taxi disponibili richiedono un’attesa di più di mezz’ora.

Mentre chiamo i miei coinquilini e amici per assicurarmi che stiano bene – alcuni lavorano in pieno centro – osservo i clienti rimasti ballare come forsennati davanti alla consolle.

È una scena surreale; in un attimo ogni cosa ha preso un posto nuovo, assunto una nuova importanza. Ogni attimo dura una frazione di tempo in più. Dopo più di un’ora saliamo su un autobus diretto in zona est. Il traffico è lento, l’autista stanco e scorbutico.

A bordo c’è un gruppo di ragazze che sono appena uscite da un locale: ridono e scherzano, si lamentano perché la metropolitana è chiusa, i tacchi fanno male, l’autobus ci sta mettendo troppo.

A quanto pare la loro serata è stata rovinata.

Il resto delle persone a bordo è seduto in silenzio: alcuni guardano fuori dal finestrino, altri hanno appoggiato la testa sullo schienale e cercano di dormire.

Un ragazzo cerca di attaccare bottone usando l’attacco terroristico come argomento. Per un momento mi tornano in mente le prove di evacuazione in caso di incendio fatte alle scuole superiori.

Quando arrivo a casa non riesco subito a dormire. Ad ogni momento che passa arrivano nuove conferme da amici che dichiarano di stare bene durante l’attacco – Facebook si rivela molto utile in questa circostanza. Chiudo gli occhi solo dopo essermi assicurata che tutti stiano bene. Nel silenzio sembra una notte come un’altra, ma la mattina dopo ci risvegliamo tutti con lo sguardo più cupo e un peso in più da caricarci sulle spalle.

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