Annalisa, che parla da un computer ma non riesce a farsi ascoltare

Annalisa, che parla da un computer ma non riesce a farsi ascoltare

LA STORIA Le istituzioni non servono tanto a fiancheggiare i soggetti forti, ma a supportare quelli deboli. Così, non è nel momento in cui la nostra energia psico-fisica è all’apice che sentiamo il bisogno di un sistema sanitario pubblico capace di compensare le mancanze, ma quando la vulnerabilità si sostituisce al vigore. Perciò la storia della donna che chiameremo Annalisa sembra sintetizzarne migliaia, innumerevoli linee di sofferenza non ascoltata che rimangono silenti e invisibili: perché magari non vogliono o non possono, perché non sanno raccontarsi a un giornale o farsi largo.
Annalisa ha poco più di 50 anni e vive in un paese sulle colline albesi. Colpita da un cavernoma – un tumore con sede nell’encefalo – dagli esiti destrutturanti, è costretta da due anni a letto.

Spiega il padre, Antonio: «Annalisa non può muovere tutta la parte inferiore del corpo, dal collo in giù. Non può parlare, mangiare o comunicare in alcun modo, se non attraverso un computer: l’unica parte che è in grado di utilizzare è infatti l’avambraccio. Annalisa è però del tutto cosciente e necessita di assistenza continua, che solo dopo mesi di battaglie siamo riusciti a ottenere».  La strada verso l’assistenza basilare è stata impervia, densa di ostacoli paradossali e insidie. «Ad esempio, la burocrazia», spiega l’uomo, che tenta di aiutare Annalisa nel suo percorso di rimbalzi da un ospedale all’altro e da una clinica all’altra: «La burocrazia è penosa, me la lasci definire “bastarda”, pronta a fregarti più che aiutarti. La strada è irta di cavilli e domande assurde. In una situazione come la nostra, fanno anche pagare il ticket, e non basso. Sarebbe opportuno creare figure che aiutino a superare i tanti sofismi. Gli aiuti, per contro, li si riceve solamente con il contagocce».

Il vero nodo critico per la situazione di Annalisa riguarda però l’assenza di strutture sanitarie idonee e preparate per riabilitare e seguire malati cronici come Annalisa: «Abbiamo un solo ospedale a Fossano per una provincia con 600mila abitanti e circa 250mila anziani. Le poche cliniche sono mal distribuite. Siamo stati costretti a trasferirci per il ricovero in un centro al confine tra la Lombardia e l’Emilia Romagna. Tutti questi spostamenti sono sfiancanti, frammentano le cure e disorientano la famiglia, che è già sottoposta a carichi economici, emotivi e logistici molto pesanti».

L’uomo racconta la brutta esperienza vissuta al cospetto di un personaggio «potente in ambito sanitario ma totalmente impreparato dal punto di vista morale, che a causa di comportamenti ostili e a tratti onnipotenti ci ha messi in seria difficoltà: ha dimesso mia figlia da una struttura in modo prematuro, facendoci sentire impotenti e soli. C’erano muri di ospedale pieni di certificati lodevoli, fotografie di convegni e titoli di studio, articoli di giornale dedicati a un uomo che, dal punto di vista umano, si è rivelato durissimo e capace di peggiorare un dramma già intollerabile».

Esiste, per fortuna, un contrappeso: i sottili abusi o l’insensibilità emotiva che talvolta punteggiano il mondo della sanità sembrano compensati da esperienze favorevoli: «Il direttore dell’Asl Danilo Bono è stato impeccabile, un vero professionista. Ha radunato tutti i sanitari che si occupavano di Annalisa e ha integrato le cure, in modo da impedire lo sballottamento da una struttura all’altra a cui eravamo tristemente avvezzi. Meno male che esistono persone così!».

Eppure, c’è la sensazione che situazioni come quelle di Annalisa – in cui la cronicità coinvolge l’interezza della persona e del tessuto familiare – vengano sistematicamente isolate da un sistema sanitario e dunque politico dimentico, manchevole, approssimativo. La priorità delle agende è dedicata ai forti, mentre i deboli combattono i loro quotidiani duelli in un silenzio obbligato dalla mancanza di possibilità logistiche o finanziarie per affrontare le cure e l’assistenza.

Matteo Viberti

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