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Alba, aprile 1945: cosa accadde quando cessarono gli spari?

Alba, aprile 1945: quando cessarono gli spari

ALBA Molto è stato scritto sulla guerra di liberazione (1943 -45) e un’intera biblioteca potrebbe facilmente riempirsi. Ma quasi tutti gli storici si fermano ai giorni immediatamente successivi il 25 aprile, considerata la data della liberazione dell’Italia del Nord dai nazifascisti.

Il periodo successivo, sino a fine maggio-giugno 1945, non è stato molto studiato.

Si tratta di un momento importante in cui riprende la vita economica e sociale all’insegna delle libertà civili. Si buttano, insomma, le basi per la creazione della nuova Repubblica italiana.

Ma “quando cessarono gli spari” cosa successe in Italia e in particolare nell’Albese?

Molto resta da capire: chi veramente uccise Mussolini? Dove finì il cosiddetto “oro di Dongo”?  Potrei aggiungere tante altre cose. Ma rimanendo nella nostra zona, curiosando i numerosi libri di testo in merito, pare che nel periodo citato tutto si sia svolto in modo del tutto regolare: il presidio repubblichino si arrende alle forze partigiane, si elegge un nuovo sindaco, arrivano gli alleati.

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Autorità militari, civili e religiose salutano la folla dal balcome del municipio la sera del 26 aprile – Studio Agnelli Alba

Il ruolo della Chiesa

In vero qualcosa resta da capire e approfondire. Iniziamo dal 26 aprile: la resa del presidio repubblichino. Mons. Luigi  Grassi nelle memorie evidenzia in modo incisivo il ruolo della Chiesa locale.

E’ importante, ma non decisivo: la resa avviene perché è in atto il totale sfaldamento della Repubblica di Salò. Anche l’ammutinamento della truppa repubblichina descritto dal prelato – a mio avviso – non è poi così rilevante. In vero la gerarchia ecclesiale in tutt’Italia cercava di avere un ruolo decisivo in quei giorni cruciali. Il cardinale Schuster a Milano tratta in curia la resa tra autorità fasciste e Clnai, Fossati a Torino, Siri a Genova svolgono ruoli delicati e importanti. Di fatto la Chiesa, in quanto istituzione radicata sul territorio, cerca un nuovo ruolo, negato nel ventennio fascista, per garantire al ricostruito Partito popolare o a personaggi carismatici a esso legati – basti pensare a Moro, a La Pira, a Dossetti – un ruolo importante nella futura ricostruzione del Paese. Un dato contraddittorio emerge: la resa del presidio avviene alla presenza di un ufficiale alleato e di un comandante partigiano delle divisioni autonome. Altre formazioni non sono presenti. Questo va inquadrato nel fatto che le formazioni autonome del maggiore Mauri cercavano, anche in base al piano insurrezionale E 27 del Clnai, un ruolo prioritario, se non decisivo, nella liberazione del Piemonte, in primis della città di Torino. Era importante, insomma, non tanto la resa fascista, comunque scontata, ma il fatto che il nostro Paese, in seguito agli accordi di Yalta, rientrava nell’area occidentale.

In questo contesto le formazioni autonome, organizzate, ben armate e con una forte credibilità e autorevolezza, erano quanto mai importanti per gli alleati.

Gli alleati e le formazioni partigiane autonome

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Soldati americani ad Alba – Archivio Buccolo

Un’altra cosa, tutta da capire: perché le forze alleate arrivano ad Alba solamente il 29 aprile?

Il 23 aprile gli alleati avevano lanciato teste di ponte sul Po vicino a Piacenza. Essendo divisioni autotrasportate, potevano arrivare a Torino o Milano in ventiquattro ore, anche meno. I tedeschi avevano avuto ordine di restare in caserma senza combattere, le formazioni di Salò erano sul “si salvi chi può”, soltanto due divisioni italo-tedesche, ripiegavano dal fronte ligure, verso Cuneo-Torino, in ordine e complete di organici e armamenti. Eppure gli alleati arrivarono a Torino solamente sette giorni dopo. Un tempo assurdo per percorrere 100 chilometri.

Non solo, chiedono anche alle formazioni partigiane di fermarsi, di fatto si vuole ritardare ad ogni costo la liberazione di Torino. Mistero! Le considerazioni non sono militari.

Ha giocato sicuramente il fatto, sopra evidenziato, che gli alleati privilegiavano le formazioni autonome a scapito  delle altre forze partigiane, garibaldine in particolare.

La strategia dell’esercito alleato in Italia era ormai orientata ai futuri assetti istituzionali del nostro Paese. Si privilegiavano in tutti i modi forze o personaggi orientati a svolte moderate, se non conservatrici. Non dimenticando che nell’aprile del 1945 l’Italia era ancora una monarchia.

Torniamo alla nostra città: dopo la resa, s’insediò dopo poche ore il Cln locale, ma con compiti unicamente formali, di fatto tutte le funzioni civili erano comunque svolte dai comandi partigiani, seppur fosse subentrato al comando piazza un partigiano Gl.

Corretta fu la giustizia partigiana nell’Albese, è bene precisarlo. Pur nella drammaticità del momento, non ci furono vendette personali o esecuzioni sommarie, come in altre zone. Storici fascisti evidenziano che la resa firmata garantiva impunità a tutti i militari, compresi gli ufficiali Gagliardi e Rossi, nomi purtroppo famosi nell’Albese. Dimenticano che le norme della resa riguardavano, a seguito della convenzione di Ginevra, l’attività di militari inquadrati in regolari eserciti combattenti.  Ma non potevano certo riguardare i crimini di guerra di cui si sono resi responsabili i due ufficiali sopracitati e per i quali hanno giustamente pagato.

Questo in applicazione del piano E 27 emesso dal Clnai nelle settimane precedenti l’insurrezione.

La condanna degli ufficiali repubblichini

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Alba, sera del 26 aprile: piazza del Duomo è piena di folla festante – Studio Agnelli Alba

Il tribunale partigiano regolarmente costituito in Alba esaminò altri fatti e gran parte dei soldati del presidio – truppa e sottoufficiali – provenienti da Brescia, vennero lasciati liberi di tornare alle proprie case. Altri 5 ufficiali, rei di crimini di guerra, vennero condannati a morte e fucilati il 4 maggio al cimitero di Alba. Nell’Albese e nelle Langhe, tremendi e tragici sono stati i mesi dall’8 settembre al 25 aprile, ben descritti con forte realismo nell’opera di Mons. Grassi La tortura di Alba e dell’Albese.

La folla che assistette alla fucilazione al campo sportivo Coppino di Gagliardi e Rossi, e in qualche caso sfogò il proprio rancore anche sui cadaveri, fa  parte di un furore popolare comprensibile nella eccezionale drammaticità del momento. Come i torinesi che assistettero a Torino all’impiccagione del federale fascista Solaro o la folla che premeva a Milano a piazzale Loreto, sui cadaveri di gerarchi fascisti.

Come ha scritto Primo Levi, il ricordo di una violenza patita o inflitta è traumatico per natura. Ambedue i protagonisti – vittima e carnefice – cercano di liberarsene, ma non è facile. Sovente si arriva a un paradosso: ambedue sono nella stessa trappola. Ma qui occorre essere molto chiari: è l’oppressore, lui solo che l’ha approntata e l’ha fatta scattare.

Altre considerazioni riguardano l’estrema correttezza del giudicare coloro che durante il periodo fascista avevano ricoperto, in Alba, cariche pubbliche. Come per il commissario prefettizio Bianco, cui non venne rivolta alcuna accusa, tra l’altro aveva avuto un importante ruolo di moderatore in molte occasioni, come per il podestà Bressano, anche per aver salvato alcuni abitanti di Fontanafredda in stato di fermo a Cuneo. Qualche dirigente scolastico venne cercato, ad esempio l’ispettore didattico Oberto, mentre il preside della scuola enologica Tedeschini fu sospeso per un breve periodo, con i diplomandi enologi in sciopero, in quanto accusato di collaborazionismo. Altro non risulta riguardo ai civili, salvo qualche rapatura in piazza Savona di alcune donne che avevano collaborato in qualche modo con il presidio fascista. Purtroppo alti ufficiali della Rsi sfuggiranno alla giustizia partigiana.

Il 4 maggio i tribunali partigiani vengono messi fuorilegge dagli alleati. Come ricorderà un ufficiale inglese avevano garantito “Una giustizia veloce, ma corretta”. Entrano in funzione le Corti d’Assise Straordinarie, anche a livello provinciale. Personaggi, ancora oggi tristemente ricordati come i colonnelli Langasco, Pieroni, Ruta, Cabras sono processati e condannati. Ma tra appelli, riduzioni di pena e infine l’amnistia Togliatti, all’inizio degli anni Cinquanta sono di fatto liberi. Compresi quelli colpevoli di gravi crimini in molti paesi di Langa. L’ultima fase della guerra di liberazione riguarda la smobilitazione e la consegna delle armi. Nel maggio 1945 ai partigiani viene concessa la qualifica di “combattente” con un premio in denaro di 7mila lire e un pezzo di stoffa. Per chi ha rischiato tutto, compreso la tortura e la deportazione se catturato, è ben poco. Inoltre il ritorno alla vita civile non è semplice. Molti non riescono neppure a trovare un lavoro, mentre cresce la sensazione che siano in atto nel Paese programmi restauratori che di fatto negano o rendono poco incisivi gli ideali della Resistenza. Dante Livio Bianco parlerà di “Resistenza tradita”. Per questo motivo in molte zone le armi non vengono consegnate. Riguardo all’Albese depositi vengono ritrovati, mesi dopo, dai Carabinieri a Monforte, Montà e Neive.

Termino con una bellissima frase che un partigiano tipografo Gl, Arturo Felici, fece stampare sui muri di Cuneo appena liberata.  Forse condensa in sole sette parole tutte le problematiche e le aspettative del periodo post-resistenziale. Ancora oggi fa  molto riflettere. Aveva scritto: “Per la nostra generazione non c’è congedo”.

Lorenzo Tablino

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